I Giusti. Con la maiuscola. Come Gino Bartali, il postino della pace, che nei tubi della sua bici nascondeva documenti falsi e li consegnava a italiani ebrei per indossare una nuova identità e sfuggire ai campi di concentramento fascisti e nazisti.
Oltre ai non ebrei che hanno salvato degli ebrei durante la Shoah, oggi i Giusti comprendono altre donne e uomini che hanno lottato per i diritti umani contro genocidi, massacri, sopraffazioni, attentati alla natura come il disboscamento della foresta amazzonica.
E per ogni Giusto, un albero. Perché gli alberi sono simboli, rappresentanti, bandiere della vita. Gli alberi vengono ospitati in parchi. Da qui i Giardini dei Giusti.
La Fondazione Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide) propone anche un libro, “I Giusti e lo Sport” (Cafoscarina, 336 pagine, 18 euro): 21 storie per 21 Giusti, a cura di Gino Cervi, con la premessa affidata a Gabriele Nissim e l’appendice riservata alla Carta dello sport, e i contributi di Giulia Arturi, Giovanni A. Cerutti, Joshua Evangelista, Cristina Giudici, Fabio Poletti e Alberto Toscano, oltre che dello stesso Cervi, con un vecchio pezzo di Gianni Mura scritto per il mensile “Scarp de’ tenis”.
Si va dal calcio (Bruno Neri, Matthias Sindelar, Arpad Weisz, Ernest Erbstein, Socrates, il Fussball-Club St. Pauli, Khalida Popal, compresi gli stadi De Meer di Amsterdam e Monumental di Buenos Aires) al nuoto (Eva Szekely), dall’atletica (Peter Norman, Emil Zatopek, Donato Sabia, Son Kee-chung, Nawal El Moutawakel) al tennis (Arthur Ashe), dal rugby (La Plata Rugby Club), alla ginnastica (Vera Caslavska), dal football americano (Colin Kaepernick) all’alpinismo (Nasim Esqhi).
C’è anche il ciclismo. Non solo Bartali (tratto dal libro “Gino Bartali. Una bici contro il Fascismo”, Baldini+Castoldi, di Alberto Toscano), ma anche Albert Richter e Augusta Fornasari (raccontati da Cervi). Richter, tedesco di Colonia, ebreo, figlio di un musicista, era uno specialista della pista, velocità, “il tedesco a otto cilindri”, si laureò campione nel Grand Prix de Paris e campione del mondo a Roma nel 1932, protagonista nelle Sei Giorni, quindi perseguitato dai nazisti, assassinato anche se ufficialmente fu dichiarato il suicidio per impiccagione. Era il 1940. Aveva 27 anni. Su di lui c’era già il libro “Albert Richter. Un’aquila tra le svastiche” di Fabrizio Ulivieri (Bradipolibri, del 2007).
E Fornasari, molinellese della Malvezza, nel Ferrarese, il padre socialista, prima bracciante poi oste, lei operaia, la passione per il ciclismo, forse esplosa grazie a Alfonsina Strada, partigiana e staffettista durante la Resistenza, poi finalmente “corridora”, stradista e pistard, perfino campionessa italiana, una carriera semiclandestina perché il ciclismo delle donne in Italia, nel Secondo dopoguerra, era ancora pionieristico, avversato, soffocato dai pregiudizi.
“Questi sportivi – scrive Nissim – hanno infranto il dogma che lo sport debba essere un mondo che basta a se stesso e chi ci si dedica debba dimenticarsi di quello che succede intorno a lui”. Lo sport è come un albero: è la vita.
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