
Clic. Il clic della macchina fotografica era come il clic di una pistola, di un archibugio, di un moschetto: un solo colpo in canna per fare centro. Nel cuore di un gol, di un montante, di una mischia, di una volata, di una fuga, di un gesto, di un’espressione, o nel cuore di un nemico.
Clic. I fotografi da strada, da stadio, da ring, da palazzetto erano cowboy armati di pellicola e obiettivo, sparavano un colpo, uno scatto, e quel colpo, quello scatto era tutto, faceva la differenza tra cowboy e indiani, tra professionisti e dilettanti, tra serie A e serie B, tra foto pubblicata in prima pagina e foto scartata arrivederci-e-grazie, tra foto pagata e foto cestinata, tra cena in trattoria o salto del pasto.
Clic. Uno solo, e poi bisognava ricaricare la macchina, la pistola, l’archibugio, il fucile. E non finiva lì. Perché poi c’era da sviluppare la foto, stamparla - i maestri del bianco e nero, giochi di sfumature e piccolissimi ritocchi – e trasmetterla, roba da artisti più che da artigiani, anche l’arte di arrangiarsi, roba da velocisti più che da poeti, da prestigiatori più che da accademici.
Vito Liverani ha sempre avuto, dopo il necessario rodaggio, la vita in pugno: mano, dita, polpastrello, clic. Fotografo da pronti-via, da tutto-e-subito, da o-la-va-o-la-spacca, ma con lui è sempre andata, andata bene, benissimo, di lusso, perché aveva il dono, raro, di prevedere quello che sarebbe successo, un po’ per istinto e un po’ per esperienza. E comunque c’era, era lì, presente, sul posto, sul pezzo, perennemente sui blocchi di partenza.
“La mia vita in pugno” è il libro scritto da Sergio e Federico Meda (Bolis edizioni, 128 pagine, 18 euro, prefazione di Emanuela Audisio) sui 70 anni di fotogiornalismo sportivo e sui 90 anni di vita totale (parziale, essendo lui vivissimo) di Vitaliano Liverani detto Vito, da Modigliana, Romagna, osteria del Pirula, a Milano, trattoria di via Mameli 9, con alloggio soprastante. L’illuminazione in un annuncio sul “Corriere della Sera”, il posto da fattorino, l’ingaggio immediato in uno studio fotografico, l’esordio in camera oscura.
Una vita, quella di Vito, da bulli e pupe, da guardie e ladri, da tiratardi e tira-a-campare, degna dei personaggi di Damon Runyon. La felice perdita dell’innocenza con le donnine che sostavano all’Ortica, il praticantato in uno stabilimento fototecnico, la prima macchinetta acquistata di seconda mano alla Fiera di Senigallia, gli alberi di viale Romagna segati per fare legna e scaldarsi, i lavori a matrimoni, comunioni e cresime, l’ingresso in una palestra, nel senso della boxe, ed è qui che a Liverani cambiò la vita. Un po’ perché salì sul ring, un po’ perché quando scese dal ring – trenta-quaranta incontri, ma dall’ultimo ne uscì gibollato dovunque – ci risalì come fotografo di scena, come testimone di k.o., come cowboy al quadrato.
Molta boxe. Per dirne due: Duilio Loi e Giancarlo Garbelli. Calcio. Un nome solo: Diego Armando Maradona. Ma anche molto ciclismo. Un nome su tutti: Fausto Coppi. La promozione a “fotografo del Giro” da Vincenzo Torriani. La foto della borraccia acquistata dalla vedova di Carlo Martini. E la mostra dal titolo “L’Italia di Coppi”, nel 2010, a 50 anni dalla morte del Campionissimo. “Ho scelto le migliori immagini degli anni Quaranta e Cinquanta, tratte dall’archivio Omega. Oltre le mie ho scelto le foto di Carlo Martini e di Luigi Bertazzini che lo hanno seguito a lungo. C’era l’immagine di Fausto in posa con ‘Sugar’ Ray Robinson, artista come lui, ma sul ring; e ancora mentre incita Roger Rivière a battere il record dell’ora che in quel momento gli apparteneva. In un’altra Fausto spinge Gino Bartali: l’ho fatta a una partenza del Tour de France, e in quel gesto c’è affetto e rispetto”.
Se poi non si ha passione per boxe e ciclismo, e neanche per lo sport e la fotografia, si può sempre leggere “La mia vita in pugno” come un romanzo. I Meda, padre e figlio, 30 ore di registrazione e chissà quante di riscrittura, hanno firmato una vera opera “hard boiled”. Elettrica.
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