Doping 4. Sandro Donati: «Devono pagare i tecnici e i medici»

| 09/07/2007 | 00:00
Dopo aver analizzato le gravi conseguenze del doping - la grande diffusione tra gli sportivi non di vertice, l’intervento della ma­lavita organizzata, i drammatici problemi di salute che provoca - è il momento di trovare una via nuova alla strategia di opposizione. Lo facciamo insieme ad Alessandro Donati, anima storica dell’antidoping. Soprattutto ne­gli ultimi anni è cresciuta la sua popolarità all’estero. Il suo ” Report” - di cui abbiamo parlato diffusamente nella seconda puntata ­ha fatto un po’ il giro del mondo. E ha fatto colpo ad esempio in Germania, dove c’è un ambiente sotto choc per la vicenda Ullrich, le confessioni di Zabel e Jaksche, il pieno coin­volgimento nel doping del team Telekom. A Berlino, il 20 giugno scorso, Donati è sta­to ascoltato dal Parlamento tedesco, un’au­dizione pubblica cui hanno partecipato un centinaio di giornalisti. L’audizione, voluta dal ministro degli Interni, è stata preparata in Italia dal presidente della commissione sport del parlamento tedesco, Peter Dan­ckert, che ha incontrato anche il sottosegre­tario al Ministero dello sport, Giovanni Lol­li. Nel corso dell’audizione, Donati ha espres­so le sue idee, che ci ripete nel corso di que­sta intervista. «Sono partito da una comparazione tra sistema sportivo e sistema giudiziario statale, avendo presenti gli obiettivi la rag­giungere: l’acquisizione delle prove e l’ero­gazione delle sanzioni. Sul primo punto la magistratura ordinaria ha molti più mezzi a disposizione, ma sul secondo si deve sfrutta­re la rapidità della giustizia sportiva. A pat­to che, naturalmente, cambi ottica». Cioè? «Deve smetterla di affidarsi esclusivamen­te ai test antidoping. Storicamente, c’è un gap di almeno vent’anni tra doping e antidoping, anche se questo gap s’è abbassato notevol­mente da quando, nel 1999, è nata la Wada. Ma oggi il problema non è più il gap. Come dimostra il caso Balco, se si produce un far­maco dopante cambiando una sola molecola, si eludono i controlli. Con i soldi che girano e la tecnologia di oggi, quanti altri laborato­ri sono in grado di produrre farmaci che ag­girano i test?». Quale deve essere la nuova strategia del mondo dello sport? «Sviluppare al massimo la collaborazione con la magistratura ordinaria, come sta avve­nendo adesso per l’inchiesta ”Oil for drug”. Il maresciallo dei Nas, Ferrante, e il pm di Ro­ma, Ferraro, hanno consegnato gli atti alla Procura antidoping. Ma dal mondo dello sport ci si attende un gesto di responsabilità, non può più limitarsi a colpire solo gli atleti. Deve pensare soprattutto a quelli che defini­sco ” adulti significativi”: medici, dirigenti, allenatori... Molti di loro hanno corrotto inte­re generazioni di atleti». Sembra la strada imboccata adesso dal procuratore Torri. «Seguo con moderato ottimismo quello che sta facendo. Spero che riesca ad arrivare al­le radici del problema. Da un magistrato che ha avuto un ruolo importantissimo, mi aspet­to analisi più complessive, la capacità di an­dare a fondo sul ruolo e le responsabilità di alcune società sportive, di certe federazio­ni... Se avrà la forza di andare avanti, sono pronto ad offrirgli la mia piena collaborazio­ne». I controlli antidoping sono inutili? «Non posso dir questo. Se non ci fossero, tutti tornerebbero ad utilizzare anabolizzan­ti in enorme quantità, come avveniva in pas­sato. Ma è ormai tempo di arrivare a un pas­saporto sanitario elettronico individuale, in cui siano raccolti tutti i dati dell’atleta, a par­tire dai suoi valori emato-chimici. Poi si do­vrebbero studiare le sanzioni per motivi di salute. Ci sarebbe così anche un salto di qua­lità etico, perchè finalmente la tutela della salute tornerebbe al primo posto. E tutti i da­ti raccolti nel passaporto sanitario divente­rebbero una guida per i test antidoping, tam­ponerebbero i loro limiti e li orienterebbero in maniera decisiva». Lei non si è mai fidato troppo dell’istituzio­ne sportiva. «No, perchè il suo passato fa spavento. Penso ai tempi della collaborazione con Con­coni. E penso a ciò che successe al program­ma ”Io non rischio la salute”, alla vigilia del­le Olimpiadi di Sydney 2000. Avevamo intra­preso la strada giusta, quella che oggi è vin­cente. Eppure il Coni preferì sciogliere quel­la commissione. Una pagina dolorosa e ver­gognosa». Molti sostengono che il mondo dello sport non dovrebbe più occuparsi dei controlli an­tidoping, che dovrebbe essere un’autorità terza a farlo. «A differenza di questi molti, io non penso minimamente di escludere lo sport dai con­trolli. Nessuno ha la sua competenza. Deve continuare a lavorare sull’antidoping, all’in­terno di quella Agenzia indipendente la cui nascita mi sembra ormai improcrastinabile». Lei è stato nominato membro della Com­missione di Vigilanza, istituita dopo la legge 376 sul doping. «Sì, e credo che questa commissione deb­ba preparare soprattutto il futuro, che preve­de modifiche alla legge e appunto la nascita dell’Agenzia indipendente. In questo mo­mento di passaggio può comunque fare mol­to, per esempio arrivare al passaporto sani­tario di cui parlavo prima. Se ci riuscisse, di­venterebbe un modello per gli altri Paesi». Alla fine, comunque, si parla sempre di re­pressione e mai di prevenzione. «Non è così, anzi posso dire che, ad esem­pio nella lotta al droga, ci sono stati significa­tivi miglioramenti da questo punto di vista. Studi recenti in Italia e negli Stati Uniti di­mostrano che c’è un’inversione di tendenza, emerge chiaramente da questionari sottopo­sti ai ragazzi. Parlo di studi serissimi: da noi, ad esempio, se n’è occupato il CNR, che ha condotto un’indagine su 40.000 studenti. Nel­la prevenzione, è fondamentale il ruolo gio­cato dai media. Però...». Però? «Apprezzo come i media si stanno compor­tando adesso. Ma non vorrei che dimenticas­sero presto, e tornassero a quelle celebrazio­ni retoriche e acritiche che si limitano ad esaltare le vittorie senza chiedersi come so­no arrivate» Cambiando completamente pagina, va se­gnalato, nel campo della prevenzione o se vogliamo in quello che si batte per una &#, va se­gnalato, nel campo della prevenzione o se vogliamo in quello che si batte per una ”rivo­luzione culturale";, un'iniziativa senza prece­denti. A fine maggio s'è svolto a Massa Mar­tana, in provincia di Perugia, il Festival del­l'Etica Applicata, che s'è occupato esclusiva­mente di sport e doping. Presenti alcuni dei più noti esponenti della cosiddetta “bioetica laica"; ( Eugenio Lecaldano, Maurizio Mori, Demetrio Neri. Assente per motivi di salute Aldo Isidori, unico “sportivo"; del gruppo, es­sendo membro della commissione scientifica del Coni). Presto il Comitato Nazionale di Bioetica dovrebbe occuparsi del problema doping. Non è una notizia di poco conto, con­siderato l'importanza di questa istituzione e il suo suolo di guida. Il Comitato, tanto per restare in tema, nel 2001 pubblicò un lavoro intitolato « Scopi, limiti e rischi della medici­na » , nel quale si segnalava che si è ormai ar­rivati alla medicalizzazione della vita, e si sottolineavano le tentazioni cui può incorre­re la medicina di oggi: quella di considerar­si onnipotente, e quella di ritenersi in grado di esaudire qualsiasi tipo di desiderio. Temi, come si intuisce, confinanti col doping, pro­prio mentre incombe la minaccia del doping genetico. E nessun organismo, su questioni così rilevanti, può dare risposte migliori del Comitato Nazionale di Bioetica. da «Il Corriere dello Sport» del 8 luglio 2007 a firma Sergio Rizzo
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