Ingrillì: «Con una firma non si debella la piaga del doping»
| 30/06/2007 | 00:00 È passato dal blitz di Sanremo (Giro 2001), alla Camera di conciliazione del Coni per gli arbitrati di «calciopoli». Ha vissuto in prima persona il dramma sportivo e umano di Marco Pantani, per poi passare alle vicende legate a «Moggiopoli». Enrico Ingrillì, cinquant’anni, messinese trapiantato a Milano, avvocato civilista, con una passione profonda per lo sport: calcio, golf e ciclismo su tutto.
Dal 1997 al 2003 è stato presidente del sindacato dei corridori professionisti italiani, una sorta di Sergio Campana su due ruote, oggi segue e dispensa giudizi, commenti e proposte tutt’altro che discutibili.
«Intanto discuto l’ultima trovata dell’Unione Ciclistica Internazionale, quella della lettera d’intenti, quella con la quale i corridori si dovranno impegnare a pagare con un anno del loro stipendio nel caso finiscano in questioni legate al doping – spiega Ingrillì -. Un documento con il quale si impegnano a dare il loro Dna, la loro reperibilità costante e continua e quant’altro. Mi sembrano tutti palliativi. Ha ragione Petrucci: controlli a tappeto, dalla sera alla mattina, a sorpresa, soprattutto lontano dalle competizioni e chi viene pescato con le mani nel sacco radiato e fine dei discorsi».
Ingrillì parla con chiarezza, lasciando da parte il codice e il linguaggio caro ai forensi.
«Credono di debellare il doping con una firma, con i corridori che prendono atto e si assumono le proprie responsabilità: sono sciocchezze. Un grande corridore del passato, un giorno mi raccontò una cosa. “Vedi Enrico – mi disse -, se ti presenti al via della Sanremo e vai dai corridori con una fialetta in mano e dici loro, questa vi farà vincere la Sanremo al cento per cento, ma badate bene, forse potreste morire, non ci sarà corridore che rifiuterà quella misteriosa fialetta”. Questo per dire che cosa? Che il ciclismo, lo sport professionistico in generale è pronto a tutto. Credete davvero che abbiano problemi a firmare un foglio?».
Non pensa di essere eccessivamente duro?
«Scusi, ma lunedì sarà ascoltato dalla Procura antidoping del Coni Petacchi, per una vicenda legata al salbutamolo, esattamente come Leonardo Piepoli, che corre però per una squadra spagnola e ha la licenza monegasca. Petacchi sarà giudicato e Piepoli rischia di non esserlo, perché a Montecarlo generalmente fanno orecchie da mercanti. Petacchi deve giustificare un valore di salbutamolo di 1.320 ng/ml nelle proprie urine, mentre Piepoli che ne ha valori a 1.880, potrebbe farla franca. Vedremo se l’Uci farà qualcosa. Intanto, per il momento, tace. E la stessa discorso vale per Alejandro Valverde e tutti i corridori spagnoli. In Spagna ci sono sacche con la sigla “Val-Piti”, se il corridore vuole fugare ogni dubbio vada e dia la propria disponibilità all’esame del Dna. Questo discorso valeva per Basso, perché non vale più per gli altri?».
E allora cosa facciamo?
«Tolleranza zero, ma dopo una discussione e dal prossimo anno. Non si cambiano le regole in corsa».
Cosa pensa di Francesco Moser, presidente del sindacato mondiale dei corridori?
«È un solista, va per conto suo, non ha una struttura che lo supporta adeguatamente. E’ generoso, ma non basta».
E i corridori?
«Hanno mille colpe, mille difetti, soprattutto ognuno va per suo conto, e ognuno pensa di essere il più furbo dell’altro, ma sono anche gli unici che rischiano e pagano per quello che fanno. Gli altri, i team manager e i medici la fanno sempre franca».
Senta, e cosa pensa del suo successore, Amedeo Colombo, attuale presidente del sindacato dei corridori?
«È una persona squisita, un grande industriale, generoso e dinamico. Il problema però non è lui o il suo sindacato, è la mancanza di un governo mondiale, la confusione, l’accavallarsi delle competenze: Wada, Uci, Coni, Federazioni Nazionali, Nado. Chi comanda? Poi da giurista sono per una centralità della giustizia, per un’entità esterna, gestita dal Cio, dal Coni, dall’Uci o dal Tas, ma che sia una sola a dire e a giudicare. Il doping è un affare per molti, non solo per gli atleti; la confusione e l’ingerenza può essere una strategia: per alcuni può diventare una scappatoia alle proprie responsabilità».
da «Il Giornale» del 30 giugno 2007 a firma Pier Augusto Stagi
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