STORIA | 12/05/2018 | 09:08 Corridori così non ce ne sono più. Vito Taccone era esagerato, a partire dalla mattina, quando con occhi colmi di sfida annunciava quello che avrebbe fatto quel giorno: era come mettere i manifesti, ma lui non si è mai preoccupato di scoprire le carte, la pretattica non faceva parte del suo bagaglio culturale. Prometteva battaglia e guardava in faccia il resto del gruppo, come dire: Se avete le gambe e il cuore, potete sempre fare come, e venirmi dietro. Aveva la furia nel suo modo di correre e in quello di vivere: fu il primo grande campione venuto dal sud. Come scrisse Gino Sala, era capace «di fare a botte con avversari giudicati per un motivo o per l'altro come dei traditori perché non avevano collaborato a sufficienza nelle fughe, perché facendo i furbi si trovavano alla fine con le gambe buone per emergere in volata». Niente fair play, niente prego si accomodi, e soprattutto niente «sono contento della prestazione della squadra, il Giro è ancora lungo». L’unica cosa che contava era oggi, qui, e soprattutto mettere le ruote davanti a tutti.
Vito era nato ad Avezzano, fra i monti marsicani, nel 1940, ed era stato un bambino di guerra. Aveva patito la fame, avrebbe voluto andare a scuola ma a casa non c’erano soldi per far studiare un figlio. E allora aveva fatto il pastore, e poi il garzone del fornaio, e facendo le consegne in montagna si era allenato senza saperlo a fare il corridore in bicicletta. Un giorno videro in lui una specie di talento, così fece il dilettante, e poi passò professionista, a ventun anni. Lo raccontò al Processo alla Tappa di Sergio Zavoli, il suo palcoscenico ideale, dove allargò i confini del dialetto abruzzese. «Io vado alle corse come un rapinatore entra in una banca. Ogni vittoria significa una cambiale di trecentomila lire che mia madre non deve più pagare». Il padre di Vito era stato ucciso, e il dolore non era più uscito dalla sua vita.
Vito non porgeva l’altra guancia, andava a cercare quella del suo avversario. Non si arrendeva mai, lo avevano disegnato così. «Io non sono un corridore, sono un lupo affamato. La lepre, la gazzella, il camoscio, sono immagini eleganti, vanno bene per Fausto Coppi: io la strada devo mangiarla, divorarla, a volte anche vomitarla per la grande fatica». Vito agitava le folle, scattava e dava la scossa al gruppo, e spesso vinceva. In nove anni di professionismo di corse ne vinse 27, e dentro ci sono una maglia rosa, un Lombardia, un Giro del Piemonte, un Giro di Campania, un Giro di Toscana, una Milano-Torino, un Trofeo Matteotti e otto tappe del Giro d'Italia. Che potevano essere nove, invece no.
Successe a Maratea, incantevole affaccio di Lucania sul mar Tirreno, con la sabbia impalpabile di A’Gnola, dove oggi il Giro passa al volo subito dopo mezzogiorno, pochi chilometri dopo essere ripartito. A Maratea arrivava la settima tappa del Giro 1965, partita da Potenza. Primo al traguardo fu Vito Taccone, ma la giuria decise che la sua volata era stata scorretta, e assegnò la vittoria a Luciano Armani, che era stato vistosamente chiuso contro le transenne e addirittura preso per la maglia. Figuriamoci Taccone. E Armani, che tagliato il traguardo cominciò a corrergli dietro per prenderlo. Volarono gli schiaffi, indovinate chi fu a darli. Quel giorno il Processo di Zavoli fu memorabile.
Nel 1970, quando Taccone smise di fare il corridore, anche la Rai chiuse il Processo. Sarà un caso.
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