STORIA | 09/05/2018 | 07:11 Chilometro 77,8, al bivio per Menfi la corsa entra nel cuore della Valle del Belice. Attraversi Santa Margherita e Montevago, prosegui per Partanna e, attraverso la provinciale, per Poggioreale. Dai ruderi del paese arrivi al Cretto di Burri, a Gibellina vecchia: per la tappa è soltanto l’ultimo tratto, in mezzo a un paesaggio che toglie il fiato fra le colline su cui domina, da un colle, il castello di Rampinzeri, fino a Santa Ninfa.
Cinquant’anni fa, dopo la scossa più atroce, quella delle 3.01 della notte fra il 14 e il 15 gennaio, Gibellina e Poggioreale furono rasi al suolo. Oggi sono stati ricostruiti, ma non nello stesso punto. E dei paesi di prima rimangono scheletri e fantasmi, nient’altro. «Viaggio nell’apocalisse», titolò L’ora il servizio dell’inviato Bruno Carbone nella terra stramazzata da tredici scosse una peggio dell’altra. «Non una casa ha retto alla scossa, si sono sgretolate», scriveva Carbone. Gli italiani guardavano alla tivù le immagini in bianco e nero, imparavano nomi mai sentiti prima, Salemi, Partanna, Santa Ninfa. E anche il Belice non lo conosceva nessuno fuori da lì, al punto che è passato dalla cronaca alla storia con l’accento sbagliato: diciamo Bélice perché alla Rai cominciarono a pronunciarlo così, ma si è sempre chiamato Belìce.
l giornalista che primo raccontò quello che era successo fu un giovane cronista dell’Ansa, Lucio Galluzzo, che poi è diventato capo della redazione siciliana. Ricorda che pochi minuti dopo le due, dopo una scossa particolarmente forte, finalmente i carabinieri di Gibellina risposero al telefono. «È crollato il campanile, alcune case, stiamo facendo una ricognizione», rispose il comandante della Legione, che era già arrivato sul posto. Era uno del nord, si chiamava Carlo Alberto Dalla Chiesa. Mentre parlava con il comandante il cronista dell’Ansa sentì al telefono «un respiro sordo e profondo», e sulle prime non capì che saliva dalla terra. «Viene giù tutto», fece appena in tempo a dirgli Dalla Chiesa, e poi la linea si interruppe. Era arrivata un’altra scossa, fatale.
Oggi il Giro d’Italia - che nel 2009 raccolse oltre 100mila euro per i terremotati dell’Abruzzo - fa tappa nella Valle del Belice in questo suo pellegrinaggio fra storia e preghiera che parte da Gerusalemme, passa da Assisi e arriverà un giorno a Roma. Dai fantasmi di Poggioreale lo sguardo si poserà sul grande Cretto, l’opera d’arte di Alberto Burri che fissa per sempre il dolore degli abitanti di Gibellina e ricorda le vittime di quel terremoto. «Quando andai a visitare il posto, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Una stradina tortuosa, bruciata dal sole, che conduce a un cumulo di ruderi. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento». Dall’alto appare come una serie di fratture di cemento, ogni fenditura è larga almeno due metri, e i blocchi sono alti come una persona: il tutto per una superficie di circa ottomila metri quadrati, una delle opere d'arte contemporanea più grandi di sempre. Il Giro lo farà vedere al mondo, e tutti parleranno per un giorno di quella notte di cinquant’anni fa. E magari, per sbaglio, l’accento tornerà ad essere quello giusto. Belìce.
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