STORIA | 28/02/2018 | 07:04 Spesso, a saperne di più sono quelli che appaiono di meno. Quando seguivo il Giro d’Italia per La Gazzetta dello Sport, quello che ne sapeva più di tutti era il Gigi Belcredi. Il Gigi, o il Belcredi, con tanto di articolo determinativo, perché lombardo di Montalto Pavese. Aveva cominciato a guidare una macchina della “Gazzetta” per accompagnare il grandissimo Luigi Gianoli. Ogni mattina, quando lo accoglieva, il Gigi ricordava a Gianoli che, volendo, poteva collegarsi a radiocorsa. “Per carità!”, implorava Gianoli, “perché vuole rovinarmi una così bella giornata?”. E senza essere aggiornato su fughe e inseguimenti, vantaggi e ritardi, poteva serenamente ammirare i paesaggi geografici e ripercorrere le vicende storiche disinteressandosi delle scaramucce ciclistiche.
Da Gianoli in poi, il Gigi ha condotto giornalisti sempre meno prestigiosi e autorevoli. Da Claudio Gregori, solo o in coabitazione con Valerio Piccioni e Andrea Schianchi, finché, arrivato a me e Paolo Condò, ha deciso di smettere.
Giustamente perché, toccato il fondo, gli sarebbe rimasto soltanto da scavare. E così è tornato ai suoi risotti e ai suoi maiali. Perché il Gigi è un instancabile cuoco da feste dell’Unità e uno spietato norcino, il serial killer – come lo avevamo certificato - dei suini.
Al Gigi bastava guardare i corridori in faccia, meglio se negli occhi, per capire se ne avessero o no. Poi tracciava le coordinate con la lunghezza in chilometri e il dislivello in metri della tappa, ci aggiungeva altre variabili soltanto a lui conosciute, e dettava un ordine di arrivo che raramente si sarebbe discostato da quello di poche ore successive. Tant’è vero che, prima di compilare il pronostico dei giornalisti, il consenso del Gigi era diventato fondamentale, anzi, decisivo.
Al Tour of Antalya, sull’ammiraglia della Wilier Triestina-Selle Italia, quello che ne sapeva di più non era Luca Scinto, troppo impegnato in mille attività e assistenze, manovre e acrobazie, progetti e ricordi, né tantomeno io, ma Laerte Nannini, il meccanico. Laerte era uno degli argonauti: discendente di Eolo, nipote di Cefalo, padre di Ulisse, nonno di Telemaco, suocero di Penelope, nonché re di Itaca. La folgorazione per questo nome non derivò da una passione omerica, ma da un’eredità musicale: Laerte come il figlio del cantante Adriano Pappapalardo. E da lì il battesimo. Trentadue anni, di Prato, diplomato maestro d’arte, indirizzo moda e costume, per 13 anni Laerte Nannini è stato un punto di riferimento e soccorso con la sua bottega-officina, poi ha scelto la strada, diventando ambulante e itinerante, ginnastico e circense, prima con gli under 23 della Hopplà-Petroli Firenze, adesso con i professionisti della Wilier Triestina-Selle Italia.
Circondato e assediato da coppie di ruote, da collezioni di borse per il freddo e sacchette dei rifornimenti, da depositi di borracce di sali e maltodestrine, affiancato dalla cassetta dei ferri, con gli attrezzi e l’olio a portata di mano, con carta penna liste e mappa in posizione privilegiata, Laerte seguiva e traduceva radio corsa. Ma già prima che venissero elencati i dorsali richiedenti aiuto, lui aveva già individuato Pozzato che voleva una mantellina per Mareczko, Coledan che si incaricava di portare sette borracce, Mosca che aspettava ordini di scuderia, Zardini che stava per fermarsi a fare la pipì, Koshevoy che desiderava una barretta e Zhupa che si augurava un tempo più clemente. E che proprietà di linguaggio: “La catena tu la mangi”, “Quelle di scorta le ho belle lavate ieri”, “’Sto chilometro e mezzo è ignorante”. Fino a saper distinguere tra “sbrindellio” (“Un termine più cattivo, da ciclismo degli uomini”) e “sfarfallio” (“Più dolce, da ciclismo delle donne”).
Laerte sa che il cuore è uno zingaro e va. Dal Gabon al Dubai, dalla Turchia alla Toscana. Per lui le strade sono tutte bianche, come pagine di un romanzo ancora da scrivere. E di cui solo lui conosce già il finale.
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