STORIA | 22/01/2018 | 07:55 Il telaio grigio. Il manubrio incurvato verso le manopole. Il campanello a sinistra. Il freno a contropedale. Lo scudetto con la scritta bianca sul fondo bordeaux. Maino. Era la bici di suo padre. In casa la parcheggiava nel corridoio, appoggiata al muro, dietro la porta d’ingresso. Con quella andava al bar, il suo bar, il Bar Grassi, a Firenze.
E continuò a non piacergli, quella bici, neanche quando suo padre cambiò le ruote e i freni, e gliela regalò, colorata come nuova, azzurra metallizzata, brillante e cromata. Finché scoprì che quella bici era un antico regalo di Costante Girardengo.
Una bici che va, viene, torna, una bici che respira, vive, abita, una bici che accompagna, guida, dirige, una bici che segna, marca, marchia, una bici che invecchia, si sfinisce, si esaurisce. Una bici quando “La speranza correva a sinistra” (Ediciclo, 288 pagine, 16 euro) è quella – quelle: la prima, una biciclettina rossa – di Franco Quercioli, la sua storia famigliare, dove la famiglia è anche quella della casa, della scuola, della politica, della città. E del ciclismo.
Quercioli, insegnante all’Isolotto e poi dirigente della Cgil Scuola, è cresciuto con Bartali e Coppi ma da coppiano (“Che a Firenze era come cercare un ago in un pagliaio”), godeva delle sfide fra “la testa bionda di Guido Boni, l’Angelo di Vicchio, e quella bruna e riccioluta di Gastone Nencini, il Leone del Mugello” (“Prendevano la curva del diavolo piegati al massimo, con i tubolari che sfrigolavano sul brecciolino”), seguiva il Giro d’Italia (“Alla radio. Prima i passaggi che davano i giornali radio delle una e delle due, poi l’arrivo della tappa dalle quattro alle cinque del pomeriggio”) e lo giocava (“Con i tappini delle bottiglie di birra, di aranciata o di gassosa sulla scalinata del monumento di Savonarola”), si è appassionato a Felice Gimondi (“Merckx era stato sempre il più forte ma Gimondi per noi era una fede, come il Partito comunista però italiano e come la Fiorentina. Forse qualche volta potevano anche vincere ed era ancora più bello”), si è esaltato per Francesco Moser (“In pianura va come un treno che muove le bielle poderose senza oscillare di un millimetro, le spalle ferme, il naso che taglia il vento”), leggeva anche “La Gazzetta dello Sport” (“Dove erano scritte le squadre dei corridori e i numeri che avevano dietro la schiena, necessari per identificare quelli meno famosi”).
“La speranza correva a sinistra” era anche quella della Resistenza, di Don Lorenzo Milani, di Enrico Berlinguer, era quella di Eda e Luciano (amici), del Bestia e del Bambino (calcio fiorentino), di Sergio Rusich e Luciano Gori (maestri), di Don Cubattoli e Padre Balducci (religiosi), ed è ancora quella di Paola (moglie), Giovanni e Simone (figli). Perché quella speranza è diventata anche una testimonianza, un viaggio, un’eredità, e un libro affettuoso, genuino, autentico.
E la Maino? Quercioli, ancora inconsapevole che quella bici, che lui aveva riverniciato e alleggerito, veniva da Girardengo, l’aveva lasciata davanti a scuola senza lucchetto. Rubata. Non se la prese. “Le biciclette sono fatte per correre. Se stanno ferme, muoiono”.
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