PASQUALON: «VOGLIO CONTINUARE A CRESCERE»

PROFESSIONISTI | 30/12/2017 | 07:07
Andrea Pasqualon è un corridore a tutto tondo. Dopo un passato da sciatore, cresciuto nel mito di Alberto Tom­ba, ha trasformato il suo corpo per di­ventare un ciclista competitivo su strada. Quest’anno il 29enne di Bassano del Grappa, punta veloce del team Wanty Gobert, ha fatto un grande salto di qualità debuttando in grandi corse come le classiche del nord e il Tour de France, ed è tornato a vincere al Gp Peccioli Coppa Sabatini. Pensan­do al futuro il “falco di Enego” si immagina in sella alla mtb perché è la disciplina che più lo diverte e a cui sente di ap­par­tenere. Prima però ci sono tanti traguardi che vuole raggiungere. Uno su tutti brillare al Giro delle Fiandre, la corsa dei suoi sogni, in quel Belgio che è diventata la sua seconda casa.

Hai vissuto la tua stagione migliore di sempre.
«Già. All’inizio è stata dura, mi sono subito accorto che correre a questi li­velli è proprio un altro mondo. Ho fatto tanta fatica, arrivavo alla fine del­le corse ma negli ultimi 20 chilometri, quando i big aprivano il gas, io ero a tutta già da un pezzo. Al Tour ho faticato, ma in volata ho trovato un buon feeling. Nelle tappe di salita ho cercato di salvarmi, mi sforzavo solo per andare in fuga e cercare di aiutare il mio compagno Martin, e alla fine delle tre settimane mi sono reso conto che il mio “motore” era cambiato. Ho recuperato bene, seguendo i consigli del mio preparatore Sandro Callari, che mi segue da un paio di anni. Per me è una persona molto importante, che sa sempre come motivarmi. Mi aveva detto che prima di debuttare al Tour sarebbe stato fondamentale disputare le classiche, fare “base” per poter affrontare un grande giro e che l’obiettivo per questa prima volta era portarlo a termine. In effetti ha funzionato: non mi sono spremuto esageratamente come altri compagni e ho sentito i benefici dei tanti chilometri messi nelle gambe, tanto che nelle gare successive non sono mai uscito dalla top ten. Nel finale di stagione riuscivo tranquillamente ad arrivare con i primi, sia alla Parigi Tours che in Nor­vegia ho avuto buone sensazioni».

Finchè è arrivata la vittoria.
«Alla 65a Coppa Sabatini. Sullo strappo di Peccioli, che mi aveva visto già secondo nel 2013 e nel 2016, mi sono messo dietro Sonny Colbrelli (che mi aveva battuto un anno fa) e Francesco Gavazzi, ottenendo il primo successo in una stagione ricca di piazzamenti. Sono scoppiato a piangere dalla gioia, visto che ho vinto dopo quasi due anni di digiuno».

Come stai trascorrendo l’inverno?
«Mi piace molto la mtb, magari un giorno mi cimenterò in qualche ma­rathon... Vivo in posti da sogno per i biker, sono originario di Enego (dove mamma Carmen e papà Ennio gestiscono un ristorante a 1.300 metri di quota, ndr), nell’altopiano dei sette comuni di Asiago, abbiamo percorsi che si adattano molto a chi ama il fuoristrada. A fine stagione non vedo l’ora di salire in mtb e girare per bo­schi, sentieri, single track con gli ami­ci. Oltre a divertirmi in mtb, tre volte a settimana vado allo studio SRM di Bassano del Grappa dove, seguito da un preparatore specializzato in riabilitazioni come Federico Bisson, che lavora con atleti di alto livello di varie discipline tra cui sci e golf, mi alleno con esercizi a corpo libero, di core stability e fit cross. Non sollevo i classici pesi perché non ho bisogno di mettere su massa muscolare, ma di tenere basso il peso e di allenare esplosività e agilità».

Cosa hai imparato correndo all’estero?
«Dopo le esperienze in Colnago - Bar­dia­ni, Area Zero e Roth Skoda, questo anno alla Wanty ho potuto affrontare un calendario da team World Tour. Nella formazione belga ho avuto la pos­sibilità di correre gare molto più importanti rispetto al passato, la mia crescita è dovuta soprattutto a questo. Nel ciclismo di oggi se non corri sempre con corridori di alto livello, allenandoti a casa non arrivi a determinati ritmi. Sono molto felice di aver prolungato il mio contratto per altre due stagioni: in questa squadra ho trovato un grande feeling sia con il personale che con i compagni, non è un caso se il 2017 è stato il mio anno migliore tra i prof. Amo lo spirito che si respira in Belgio, là il ciclismo è come il calcio qui da noi, per la bici diventano matti. Il pubblico è numerosissimo anche alle corse del lunedì o martedì, trovi il finimondo a bordo strada, tanto che certe volte mi chiedo: ma questi non lavorano? Quando arrivi alle partenze e tutti ti chiamano per nome è bellissimo».

Hai abbandonato lo sci perché ti saresti do­vuto trasferire, ma alla fine anche il ci­clismo ti ha obbligato a emigrare.
«In effetti quest’anno sono stato circa 220-230 giorni lontano da casa, però se vuoi competere con certi campioni l’unico modo è correre tanto e restare sempre ad alti livelli. Il ciclismo in giro per il mondo è diverso rispetto a quello italiano: gli organizzatori di casa nostra vogliono sempre inserire tante salite, all’estero meno, sono più numerosi i tracciati più abbordabili per corridori con le mie caratteristiche. Va detto pe­rò che il livello all’estero in media è più alto, ce ne siamo accorti a fine stagione quando abbiamo corso in Italia, noi della Wanty avevamo un’altra marcia rispetto ai corridori delle professional italiane, perché siamo abituati al confronto con team World Tour. Le esperienze al massimo livello davvero cambiano tutto».

Ti pesa stare lontano da casa, ora che sei papà?
«Un po’ sì. Vivo a Bassano del Grappa con Tanja, che ho conosciuto quando lavorava come miss al Giro del Tren­tino, e Joyel, la nostra bimba di 10 me­si. Il suo nome lo abbiamo deciso il giorno prima che nascesse, pensavamo fosse un maschietto, alla fine abbiamo optato per questo nome brasiliano, ne volevamo uno diverso dai classici, Ta­nja l’aveva sentito in un cartone animato, ci è piaciuto perché è composto da due parole: joy-el, la prima in inglese significa gioia e la seconda, che deriva dall’ebraico, significa altezza-grandezza-dio-potenza. Siamo stati in Messico in vacanza, a metà novembre sono ri­partito per il Belgio per il primo ritiro con la squadra per sot­topormi alle visite mediche e stilare il programma gare».

Dove ti vedremo?
«In linea di massima nelle corse che ho disputato quest’anno. Affronterò la campagna del Nord, sia Roubaix che Amstel e Frec­cia. Non penso sarò al via della Liegi perché è una corsa troppo dura per me, mentre vorrei provare a far bene sul pavé per capire se può essere adatto a me in vista dei prossimi anni. Avendo vinto l’Eu­ropa Tour speriamo di essere invitati nuovamente al Tour de France, se così fosse tornerò alla Grande Boucle».

Il 2 gennaio compirai 30 anni. Guardan­do avanti cosa vedi?
«Ancora un po’ di stagioni importanti. Avendo iniziato tardi a correre in bici, ho pagato i primi anni della mia carriera per mancanza di esperienza e soprattutto per la conformazione del mio fisico, che doveva affinarsi. Ho sciato a li­vello agonistico dai tre ai quindici anni, non me la cavavo male. Ho mollato perché è uno sport troppo impegnativo, anche a livello finanziario. Lo sci alpino concentra tutto in un minuto, in bici invece per raggiungere un risultato di strada (non solo letteralmente) devi farne davvero tanta. Più fatica e più pazienza equivalgono però a più emozioni. Già quando sciavo uscivo in bici, il feeling con le due ruote me l’hanno trasmesso i miei zii materni Dennis e Fran­cesco. La prima gara risale invece a quando ero allievo secondo anno. Negli ultimi anni ho cambiato completamente corporatura, con lo sci puntavo tutto sulla potenza, mentre in bici serve agilità ed è fondamentale pesare poco. Da quando sono passato professionista nel 2011 avrò perso 6-7 chili, crescendo anche di altezza è tanta roba e credo che i risultati si siano visti in maniera chiara».

Cosa chiedi all’anno nuovo?
«L’obiettivo di quest’anno era vincere almeno una corsa, ci sono riuscito. Per la prossima stagione voglio sicuramente essere competitivo in qualche grande classica, ottenere una top ten al Gi­ro delle Fiandre o all’Amstel Gold Ra­ce sarebbe già importante. Oltre che vincere corse di livello, mi sono prefissato di arrivare davanti nelle grandi gare, ho visto che a livello economico e di esposizione me­diatica cambia tutto, se arrivi coi grandi nelle corse che contano tutti parlano di te per un anno, più che se vincessi tante altre prove meno prestigiose».

Un sogno da realizzare?
«Una volta avrei detto vincere la San­remo, oggi rispondo conquistare il Fian­dre. La Classicissima è una gran corsa e per noi italiani ha un valore ag­giunto, per tutti è la prima classica dell’anno, ha un fascino particolare, ma il Fiandre è stata la corsa che mi ha emozionato di più, più ancora della Grande Boucle. A bordo strada c’è una quantità di persone incredibile, dal primo chilometro fino all’ultimo metro non c’è un buco libero lungo le strade. I belgi chiamano quei giorni la “settimana santa” ed è proprio vero: se vinci il Fian­dre diventi un Dio in terra».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di dicembre
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