Quanti pensieri su quel numero 1 di Bassons...
di Gian Paolo Porreca
Il ciclismo è questo, specialmente questo: che qualcuno, un pomeriggio di ottobre del ’98, quando il tempo si scolora ed il mondiale diventa un mondiale in meno da vivere, si può ricordare di Jean-Pierre Monseré e Marc De Meyer.
Il campione del mondo uscente, quello di nome Laurent Brochard ed i capelli alla Brad Pitt che confonde le donne che incrocia, quello della Festina, non ha potuto difendere il suo titolo a Valkenburg. Il trionfo del buon gusto, sostenuto dalla Federazione Ciclistica Francese e dall’UCI, con la sospensione cautelare imposta ai ciclisti implicati in questa storia, in attesa della documentazione e del giudizio delle autorità di stato, ha comportato appunto anche l’impossibilità per Brochard di difendere il suo titolo: oltre allo stop per Virenque, Rous, Hervé, Moreau...
Ed è emblematico, sottilmente allusivo, che con il numero «1» a lui destinato per diritto, quale iridato in carica, abbia gareggiato a Valkenburg proprio Christophe Bassons, l’unico atleta della Festina convocato da Mottet, al suo esordio in nazionale: già, con Halgand e Lefevre, uno dei tre ciclisti innocenti di quel gruppo, poveri gregari o nullatenenti o nulla-attendenti secondo i vertici, esentati dal doping di squadra gestito da Roussel, risparmiati da vittorie strepitose ed immuni da contratti miliardari, secondo le testimonianze rese da Willy Voet!
Almeno alla partenza, almeno fino al suo ritiro, numero «1» del mondo è stato Bassons, allora, per delega di Brochard o meglio ancora, nel plausibile trionfo della retorica, in nome degli umili di segno internazionale. Ma chi se lo ricordava più quel Bassons, campione iridato nella crono per militari nel ’95, a Sulmona, l’anno del nostro Figueras mondiale nella prova in linea? E chi tiene a mente altre prestazioni ragguardevoli di questo ventiquattrenne cronoman transalpino? Forse si ricorda di lui che è nato a Mazamet: sì, proprio come quel campione a mesi alterni che è Laurent Jalabert.
Un campionato del mondo che è partito claudicante, senza il titolare del suo credito sentimentale ed affettivo. Già, ma quanta distanza di emozione fra quel campione del 1970, che non poté mai più difendere la sua maglia iridata, perché finito in primavera nel Gran Premio di Rietie - Jean-Pierre Monseré - e questa storia mondiale di oggi, dove Laurent Brochard è diventato vittima non di un sovrano destino, ma solo di una ordinaria - o straordinaria - banalità farmaceutica!
Ma qual è il ciclismo vero, ordunque, in questo ciclismo dimezzato, ce lo chiediamo per comodo in lingua francese, fra Jalabert e Brochard che restano a casa per diritto o per dovere, e ragazzi come Bassons o Langella che corrono da neofiti il mondiale, e si ritirano al decimo giro?
Forse sarà bene rassegnarci proprio a coltivare quest’ultimo, se vogliamo riportare alla giusta luce ancora quanto ci diceva anni fa Maurizio Marchetti, un ex professionista di Sezze Romano, rimasto senza contratto per eccesso di pudore e onesta. «Mi ascolti, gli ordini d’arrivo sono veri dal ventesimo posto in giù, al massimo. Quello che c’è prima è solo una produzione medica». Sarà stata allora una overdose di malinconia, ma di certo quell’antica amarezza di un ragazzo pulito si sposa con quanto ha ancora dichiarato, con pubblica contrizione, Willy Voet. «Questa generazione ciclistica, credetemi, è fottuta. Meglio pensare alla prossima. Sapete, vorrei tornare ad allenare i ragazzi». Ma con massaggiatori come voi, di grazia?
Già, proprio come «Jeff» D’Hont, il soigneur de La Française des Jeux, tenuto in garde a vue a Lilla, per vuotare il sacco su di un’altra premiata drogheria, gestita in maniera più casalinga, secondo le dichiarazioni di Magnien.
Quel D’Hont, cinquantacinque anni, che prima di essere riciclato da Godefroot nella Telekom e poi ceduto - con diritto di riscatto? - alla squadra francese di Madiot, era stato il massaggiatore della Flandria-Velda di Maertens e Pollentier e De Meyer, negli anni ’80.
Do you remember?, lo champagne di Maertens, il tentativo di frode di Pollentier all’antidoping dell’Alpe d’Huez, già... tutto declinato con un sorriso, nevvero? Nell’innocuità della memoria, dove si fa giustizia di tutto, scambiandosi un gesto di pace.
Ma la morte di Marc De Meyer, improvvisa, nel gennaio dell’82, la morte nel sonno di quel gigante buono di un ciclismo che cominciava a diventare cattivo, quella no, noi non siamo mai riusciti a declinarla. Quel silenzio fa ancora troppo rumore nel nostro cuore. «E tu, se quello era un uomo prima ancora che un campione, stavolta raccontala giusta, Jeff».
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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