Anni bellissimi, anni bruttissimi
di Gian Paolo Ormezzano
Abbiamo appena messo via un 1998 bellissimo e bruttissimo, facile la previsione che il 1999 sarà bruttissimo e bellissimo. Continueranno si capisce i problemi del doping, ci saranno si capisce bellissime imprese epiche, e magari intitolate ancora ad un italiano, ancora a Marco Pantani. Una forza del ciclismo è questo saper astrarre, separare l’impresa dal sospetto di doping.
Ci spieghiamo, o tentiamo di spiegarci (già, una delle frasi più presuntuose del giornalismo è questo «ci spieghiamo» tout court, come ad obbligare o almeno ad impegnare il lettore a capire, e se non ce la fa peggio per lui). Quando in altri sport viene compiuta una impresa, viene battutto un record, è ormai quasi automatico pensare al doping e, nel caso che l’autore dell’exploit non sia del paese del giornalista scrivente, mettere magari avanti un certo sospetto. Nel ciclismo si pensa molto al doping ma se, mettiamo, un pedalatore va in fuga all’inizio di una tappa alpina, rimane in testa per otto ore, vince superando quattro colli nella neve e nel gelo, l’impresa viene celebrata, anche da un italiano nei riguardi di un ottentotto, senza assolutamente fare intendere che potrebbe trattarsi anche di un’impresa «chimica».
Non sappiamo bene se questa sia una forza o una debolezza. Se si tratti del prevalere della poesia o dell’ingenuità, dell’abitudine o della strategia (ma le differenze tra un termine e l’altro all’interno della stessa coppia possono essere minime). In fondo il ciclismo ha saputo affrontare il tema del doping come nessun altro sport, e dunque non dovrebbe avere paura di frequentare certe frontiere dello stesso paese. Comunque sappiamo che nel 1999 penseremo che un po’ tutti fanno ricorso al doping ma penseremo anche che ci sono imprese, e dunque atleti, superiori a questo concetto. Superiori e dunque estranei, pur se si potrebbe, a strettissimo lume di logica, pensare il contrario.
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Siamo molto generosi, molto signori o molto cretini se lasciamo sfumare il 1998 senza ricordare ancora un milione di volte che è stato l’anno storico in cui finalmente il mondo del calcio e tutto il miserabile ricchissimo cosmo che gli sta intorno hanno dovuto ammettere che il doping esiste eccome anche nei loro quartieri, e specialmente nei suoi quartieri alti?
Forse siamo semplicemente rassegnati e realisti. Il mondo del calcio sta palleggiando con il problema del doping in maniera proterva, superba, offensiva. Sta effettuando dribbling e finte, sta parlando molto per fare poco, presto parlerà pochissimo per fare niente, poi tacerà... per riprendere a fare le porcherie di prima.
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Ci sia permesso di ricordare, più gaiamente che ironicamente, il 1998 come l’anno in cui si è ulteriormente perduta, da parte del ciclismo, l’occasione di lasciare indietro l’uso di una frase che è tanto giusta quanto fessa, quella cioè che viene emessa, quasi meccanicamente, quando si è messi di fronte alla domanda se il tracciato del prossimo Giro d’Italia, del prossimo Tour de France, sia facile o difficile. Ecco la frase: «Sono i corridori a fare facile o difficile un percorso». Mamma quante volte l’abbiamo sentita, di nuovo sentita. E il pronostico sicuro è che la sentiremo ancora. Anche nel Duemila. Intendiamo dire sino al 2999. D’altronde questa è una garanzia, una prova che il ciclismo continua a respirare, a sospirare, a vivere.
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Mai pensato un ciclista come Richard Virenque. Dice che lui è estraneo a quello che è accaduto nella sua squadra, la famosa Festina, che non ha mai preso nulla di irregolare, che le analisi, lette così anzichè così... gli danno ragione. La stampa francese lo massacra di ironia, lui se ne infischia e va avanti. Appare ora diabolico, ora ingenuo.
Abbiamo provato a pensare ad un Virenque italiano, non ce l’abbiamo fatta. Ma forse perché non riusciamo ad ambientarlo di fronte alla nostra stampa, che non ha la forza di quella francese, la forza cioè di una legge anti-doping di stato. Un Virenque nostrano, uno che di fronte a tante evidenze non si arrende, le scala per buttarsi giù dall’altra parte, in incosciente serenità.
Comunque vada, sarà un mistero.
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Pensierino del nuovo anno per Fabiana Luperini. L’abbiamo «messa via» un po’ troppo velocemente, visto che è stata gravemente colpevole di non aver vinto il suo quarto Tour de France consecutivo. Il suo quarto Giro d’Italia consecutivo non ci è bastato. Eppure ancora nel 1997, ancora all’inizio del 1998, quando la soprannominavamo «pantanina», dicevamo che era Pantani a dover sperare di essere soprannominato «Luperino», anzi per essere precisi «Luperinino».
Gian Paolo Ormezzano, torinese,
editorialista de “La Stampa”
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