Non dubitiamo del ciclismo su strada che è partito. Crediamo sinceramente, non ce lo auguriamo soltanto, che il 2003 sarà un anno di ritrovata serenità agonistica per il nostro sport. Semmai di emozioni relative, pudiche, non di vertigini esaltanti: di imposizione di nuove fondamenta, di recupero di credibilità sentimentale ed innanzitutto di spazio giornalistico.
Che non si debba verificare più, in altre parole, che accada quello che nella storia centenaria del nostro quotidiano sportivo di irrinunciabile riferimento non era mai accaduto: e che cioè La Gazzetta dello Sport sia uscita per un paio di lunedì senza un rigo che fosse uno dedicato al ciclismo!
Ma la questione che ci sta particolarmente a cuore in questi giorni di valico della stagione fredda, e della quale già altre volte abbiamo fatto menzione, è quale sarà mai il futuro di un altro versante del ciclismo, parimenti rappresentativo e radicato nella sua storia e nella sua ragion di esistere. Il ciclismo, e la sua grandezza, non è soltanto la Milano-Sanremo, o il Tour de France, non è solamente quello stradaiolo della tradizione: e neanche quello, pure suggestivo ed encomiabile, dell’apertura delle nuove frontiere, dal Qatar a Langkawi, fino alla intrigante colonizzazione che la Domina Vacanze ed il suo araldo Cipollini vanno programmando per Sharm-el-Sheik ed il Mar Rosso.
Allora, quale sarà la sorte, amici lettori ed amici tecnici ed amici organizzatori, del ciclismo su pista in Italia oggi che Martinello e Baffi, al traguardo dei 40 anni, hanno dato l’addio alle Sei Giorni? Chi mai andrà in pista, poniamo con un dignitoso chauffeur come Marco Villa pure lui ormai prossimo al congedo anagrafico, con i suoi 34 anni, sul catino di Gand o su quello di Berlino?
Ma ci rendiamo conto che la stagione ventura potremmo correre il rischio di non avere alcun tandem di matrice italiana nei caroselli di inverno, noi che avevamo quarant’anni fa Terruzzi, ma che abbiamo pure avuto ieri l’altro Bincoletto e Moser? Qualcuno potrebbe obiettarci che la pista, per il ciclismo moderno, ha solo la suggestione di un acerbo amore adolescenziale, che appare inevitabilmente retrò; forse, pure, che non interessa nessuno. Che i vertici istituzionali di oggi, ed al limite anche i fruitori attuali del prodotto ciclismo, non hanno memoria dei duelli fra Maspes e Gaiardoni, e semmai riguardano al nome Maspes con il dubbio di una anagrafe straniera, e confondono Baensch con uno scioglilingua e sanno Beghetto, senza Bianchetto, al massimo per la virtù cromosomica di genitore di un calciatore.
Noi non riusciamo, sinceramente, a rassegnarci al concetto sconsolato di questa pista vista quasi come una defaillance affettiva, se non come un dazio anagrafico, e chiediamo per l’ennesima volta alla Federazione di Ceruti e alle stesse squadre professionistiche italiane di rendersi conto della gravità estrema del problema. Senza Martinello e Baffi a nascondere ed edulcorare il deserto di una base latitante, che ne sarà dell’inverno del ciclismo nostro? E non sarà mica arruolando Loddo e Ciccone, comparse timide alla prima prova di Coppa del Mondo della pista di Mosca, e solo nella prospettiva di tamponare la situazione in vista delle Olimpiadi di Atene del 2004, che si pone mano ad un tentativo corretto di soluzione della vicenda, no! Ce ne vorranno non di singoli, ma di decine e decine di ragazzi da far allenare in pista, da educare alle curve e alle ripartenze, agli sprint tecnici, come imparò Saronni, se non proprio all’esercizio arduo del surplace... La pista come base della strada, come ciclismo dell’obbligo, almeno per certe fasce di età dell’atleta, poniamo fino al limite degli juniores, che ne dite?
Al di là della nostalgia per quanto avrebbe potuto ad esempio rendere su pista, e potrebbe forse fare ancora, con opportune incentivazioni, un ragazzo come Crescenzo D’Amore, argento nel chilometro da fermo ai Mondiali di Novo Mesto del ’96, siamo certi che la pista vada vissuta e proposta prioritariamente come una palestra per il ragazzino che vuole fare ciclismo, come interfacie privilegiata proprio di quel Progetto scuola-ciclismo, tanto caro al presidente Ceruti.
D’accordo, non abbiamo un velodromo coperto funzionante, in Italia, a differenza della beata Francia. La pista, da noi, possiamo viverla solo all’aperto... Ma nell’attesa messianica di un mecenate che non ci sarà più e di istituzioni o sponsor che possano cooperare finalmente ad un progetto articolato per un velodromo coperto, semmai in una struttura mobile, facciamo almeno funzionare a pieno ritmo, e con finalità convinte di scuola, gli impianti a cielo nudo. E che non facciano la fine amara, tanto per capirci, di quello di Marcianise: appena inaugurato in luglio, e chiuso per inagibilità solo tre mesi dopo. Martinello e Baffi, ne siamo sicuri, perché ogni scuola, ed anche il ciclismo su pista, è una lezione di vita, non si nasce, ma si diventa. Giro su giro.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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