Ciclismo, fascino che non tramonta
di Gian Paolo Ormezzano
Quando mi chiedono di parlare del giornalismo sportivo, com’era e com’è, e accerto al di là di ogni ragionevole dubbio che non lo fanno per denudarmi pateticamente e poi magari sorridere di me, invariabilmente scopro che se parlo di ciclismo la materia prima, picaresca o goliardica, allegra o triste, comica o drammatica, è infinitamente più abbondante - e facilmente, naturalmente abbondante - che se parlassi di calcio e di ogni altro sport. Così come una narrazione di una giornata di lavoro al Giro d’Italia supera per intensità, presa, fascino, successo, quella di una giornata di lavoro presso qualsiasi altra situazione sportiva, fosse anche la più grande Olimpiade. E attenzione: non si tratta di fascino del ciclismo che continuamente cambia di panorama, di paesaggio, che va di città in città, che lambisce mari e solca campagne e livella montagne, perché ormai tutti hanno visto tanto mondo, e ti sanno anche dire cosa, dal punto di vista della natura, sottilmente cambia fra Guadalupa e Martinica. No, è proprio fascino assoluto, non relativo alla pochezza di cognizioni e di fantasia di chi ti sta ascoltando.
Francamente, devo desumere che la materia prima offerta dal ciclismo ai trattamenti dell’immaginazione, del ricordo, della fantasia, dell’interpretazione, dalla narrazione è davvero singolare. Il perché non lo so bene, anzi temo di non saperlo del tutto. Ma so che è così. Si pensi che addirittura c’è gente che mi chiede, del Giro d’Italia, un resoconto erotico. Quasi come se si trattasse di una Sodoma & Gomorra itinerante e i suiveurs passassero le giornate a respingere assalti molto energici, decisamente palesi di baccanti e vestali. E più dico, per esperienza anche diretta, che al Giro d’Italia la maglia bianca del niente di fatto è la divisa quasi comune, meno vengo creduto.
È che il Giro d’Italia ha fascino enorme, e non rubacchiato, neppure millantato. Ce l’ha automaticamente, quasi come un atto dovuto (dovutogli) da parte del resto del mondo (dello sport). Idem si capisce per il Tour de France, che prevede anche la conclusione a Parigi, oh Parigi. Più dico che ormai non c’è romanticismo di lavoro, ma soltanto lavoro, che le autostrade risucchiano i suiveurs velocemente agli arrivi, dove religiosamente si celebra la messa (in onda) della tappa, più lascio intendere che forse nel passato si è esagerato in mitica e magari anche in mistica del suiveur, meno vengo creduto.
Ma il tema vero qui non deve essere il Giro o il Tour di chi si sposta con i corridori, ma soltanto o addirittura il tema della superiorità immaginifica ed anche immaginifera del ciclismo su ogni altro sport. E anche di quanto poco il ciclismo sappia sfruttare questa sua prerogativa. Nel senso che lo stesso ciclismo potrebbe ammantarsi di romanticismo e invece sembra avere il pudore di questo se stesso, «colpevole» di essere all’antica, e cerca di farsi conoscere per come si modernizza, per come sta, con strumenti ed atteggiamenti, al passo con i tempi. Quasi che tempi fossero bei tempi, o meglio tempi belli.
Eppure ci sono fior di giornalisti sportivi, anche illustrissimi, i quali dicono che la loro carriera non ha senso se non riescono, presto o tardi, a fare anche un reportage al seguito del Giro d’Italia o comunque di una grande corsa a tappe. Vero che poi, quando pure avrebbero l’occasione di rendere il sogno realtà, si rilassano e rimangono dove sono, come sono, ma qui entra in ballo il loro secondo io, che è pacioso, comodoso, tranquilloso, fifoso.
Insomma, ecco che nelle righe che precedono ho illustrato, purtroppo, un’ennesima distonia del ciclismo. Un ennesimo suo sciupio di fascino, di presa. Perché se è vero che gli astanti, gli uditori ti chiedono di narrar ciclismo, e restano attenti a seguire la narrazione, è anche vero che di questo fascino assoluto noi non sappiamo essere bravi, appassionati ed appassionanti cantastorie. Da far pensare addirittura ad una sorta di nostra assurda gelosia: come se a dire troppo del ciclismo dovessimo spartirne le bellezze. E però quando riusciamo a non essere gelosi, diventiamo propagandisti emeriti, e senza inventare nulla, anzi spesso limando la realtà per paura che, troppo cattivante, sembri finzione.
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L’estate poi è stagione ottimale per eventuali cantastorie. L’Italia delle spiagge, l’Italia sotto gli ombrelloni, coltiva una sorta di rimorso, sdraiata com’è al sole, per chi sta faticando sulle strade. E si presta ottimamente a recepire narrazioni ciclistiche. Una sfaccettatura del fascino del poliedrico Tour de France deve appunto essere questa della situazione/condizione di rimorso, di pudore della propria fortuna che ha chi si rilassa mentre gli altri faticano. Situazione che non ci coinvolge, mettiamo, la notte di capodanno, quando pure noi facciamo bisboccia ed altri lavorano al servizio della nostra allegria. Perché lì il rimorso è di poche ore, e la fatica altrui non dà il senso di una dannazione cosmica, di una espiazione a pro di tutto il resto dell’umanità: il ciclismo, con le sue fatiche, sembra invece un fachiro ideale che si sdraia sul lettino di chiodi anche per conto di chi si sdraia sulla sdraio.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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