Rapporti&Relazioni
Calcio, doping e l’incredibile caccia alle scuse
di Gian Paolo Ormezzano

C’è un dopato nel ciclismo e tutti gli saltano addosso, fanno professione di sdegno o di ironia, generalizzano nel senso che estendono l’accusa alla tribù, plaudono alla repressione. C’è un dopato nel calcio e subito si cercano gli eventuali errori nelle analisi, gli eventuali perché sociali (un calciatore cocainomane si droga per ragioni sue, non si dopa per migliorare la prestazione sportiva: per questo Maradona è diventato un pioniere, quasi un martire...). Si arriva a formulare un’assoluzione teorica: il calcio è gioco interattivo, doparsi non serve a nulla perché si perde in lucidità, si smarrisce la logica del rapporto con i compagni e gli avversari, si scordano le tattiche e le controtattiche o le si applicano malamente. Dicendo una fesseria se si è in buonafede, una bugia se si è in malafede.

Perché un certo tipo di doping, come ad esempio quello al nandrolone, non è finalizzato al miglioramento specifico di quella certa prestazione in quella determinata occasione, come sarebbe l’assunzione, mettiamo, di un eccitante, ed anche la frustata dell’Epo immessa nel sangue, bensì è finalizzato alla costruzione progressiva, programmata di una muscolatura per reggere poi a certi impegni, a certe sollecitazioni. E dunque non solo da un calciatore può essere assunto, ma ad un calciatore che voglia tenere testa all’impegno fisico insito nei suoi programmi di partite e di viaggi diventa utile e diremmo quasi necessario (sempre ai fini della pratica sportiva, non della conservazione della salute).
Ma il calcio deve sempre essere scusato, perché se c’è crisi del calcio pare che salti via il tappo della barca su cui stiamo tutti. Il che magari è vero. Però bisogna avere il coraggio di ammetterlo.

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In occasione di un convegno sulla globalizzazione, con conseguenti manifestazioni del popolo verde, in quel di Quèbecville, città della immensa provincia francofona del Canada, qualcuno ha fatto notare, con una sorta di soddisfazione, che finalmente la lingua inglese non era dominatrice, imprescindibile, invadente. Tra il francese parlato dalla gente del Quèbec e lo spagnolo parlato da tantissimi leaders mondiali della politica, l’inglese è diventato, se non un optional, perlomeno una scelta.
E ci è venuto in mente che il ciclismo è rimasto l’unico sport importante a parlare francese, soprattutto francese, e poi casomai italiano e spagnolo, prima che inglese. Così come lo sci parla in prima istanza tedesco e poi francese.
Intendiamoci: in attesa del cinese, che è sì la lingua più parlata al mondo, ma per ora è parlata soltanto in Cina, l’inglese va benissimo, semplice e facile come è. Ma ci fa piacere pensare, aiutati da quello che si è notato a Quèbecville, che il francese del nostro mondo, quello di «monsieurs les coureurs, attention» non solo non tramonta, ma serve ad un popolo verde, o comunque toccato dai problemi ecologici. In fondo ormai è quasi tenero l’uso del francese, è un antiquariato orale, lessicale da tenere prezioso. Non è un caso che non esista una buona traduzione inglese, e se per questo neanche italiana, di surplace, di péloton group‚ di musette, di souplesse, e anche di combine, di course en tête, eccetera. E poi c’è suiveur, chi saprebbe come tradurre in italiano suiveur? Termine che abbraccia tanta gente, compreso il giornalista che comincia a essere davvero suiveur quando prepara la valigia per andare al Giro d’Italia.
E poi, via, il ciclismo si accompagna fortemente ad un’idea enogastronomica, la sera dopo la corsa e magari anche a mezzogiorno, staccando la corsa e aspettando che passi davanti alla trattoria. Si può pensare in inglese a mangiare e bere bene? Infinitamente più facile, più giusto in francese.

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Un giornalista diventa vecchio, continua a vedere il suo amato ciclismo, anche se ormai più dalla televisione che dal vivo, e scopre che quando c’è la volatona fremente gli prende sempre una paura forte che arrivi la caduta, e quelli lì si facciano male. Quelli lì che in quel momento gli sembrano bambini impegnati in un gioco diventato più grande di loro, bambini che rischiano. E quando la volata è finita e lui constata che nessuno è caduto, che i corridori sono riusciti a passare tutti in spazi piccoli senza un qualche patatrac, si sente sollevato, proprio come se dal balcone di casa avesse osservato la felice conclusione di un tesissimo gioco dei bimbi nel cortile. Mentre se c’è la caduta attraversa passaggi di angoscia, e spesso per fortuna anche di sollievo, se non ci sono feriti, come se tutti fossero giovani amici dei figli suoi.
È grave?

Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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