Non so se abbiano deciso o se ancora stiano decidendo, ma è dall’inverno che sento parlare dell’idea Rai di riportare Sergio Zavoli al Giro, ovviamente nel Processo alla tappa. Quarant’anni dopo, come se niente fosse. Voglio dirlo tranquillamente, a costo di farmi nuovi amici: la sola idea mi getta nella depressione più nera. Non mi sentirei così già davanti all’ipotesi di un cineforum sulle pellicole clandestine nell’Ungheria dell’occupazione sovietica.
So di bestemmiare. Ogni religione, ogni chiesa, ogni mito ha le sue bestemmie: parlar male di Zavoli nel ciclismo è tremendamente blasfemo. Ma non importa: sono pronto a precipitare nell’inferno e nella dannazione. Insisto nel dire che la sola idea di riesumare Zavoli quarant’anni dopo è agghiacciante. Perché non c’è niente di più patetico che clonare il mito di un tempo e di un luogo in un altro tempo e in un altro luogo.
Tanto per cominciare, dovremmo portare più rispetto ai trentenni, ai ventenni e ai quindicenni, cioè a quelle incolpevoli generazioni che questo Zavoli non sanno nemmeno chi sia. Per continuare il ragionamento (solo per quello) dirò brevemente che costui è un famoso giornalista, inventore tanti anni fa di una bellissima trasmissione al Giro. Usando termini contemporanei, portò il talk-show allo sport, ospitando nel dopo tappa i protagonisti, gli osservatori e le macchiette, lasciando ampio spazio alle pennellate di poesia, agli spunti di costume e ai ritagli di folklore. Chiamiamola storia della televisione e chiudiamola lì.
Le grane sono arrivate tutte dopo. Come spesso e purtroppo succede con tanti fenomeni mitizzati, al primogenito segue tutta una serie di replicanti e di imitatori. Il problema non è Zavoli, ma lo zavolismo e gli zavolini. Da allora, è nato un filone tremendo, di gente che racconta i ciclisti con liriche che neanche Dante si è mai sognato di scomodare. Da quasi mezzo secolo è un proliferare di letterati a gettone, che spacciano racconti falsi e vuoti, retorici e barocchi, melensi e fatui. Quando vanno a intervistare un corridore viene subito la tentazione di toccarsi i marroni: l’ambientazione è sempre da apocalisse imminente, ogni volta in atmosfere nebbiose e cupe, ogni volta davanti al camino (sì, pure d’agosto, sudando come iene, ma anche il sudore è poesia), ogni volta col cielo gonfio di nubi foriere delle più tragiche prospettive, per non parlare delle rughe sui volti degli atleti (certo, anche su quelli dei ventenni: Di Luca davanti al camino ha delle rughe pazzesche), e per finire ai dialoghi, immancabilmente pregnanti e tanto tanto saggi.
Se gli zavolisti, anziché creare letteratura, frequentassero quella già esistente, probabilmente si accorgerebbero che da sempre il grande scrittore è quello che si fa leggere, non quello che spinge il lettore sull’orlo del suicidio. Faccio un esempio, l’inizio di un libro a caso: «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Bellino, no? Sobrio, originale, brillante. Per la cronaca, è di un tale Lev Tolstoi, che magari non ha vinto il Trofeo Melinda, ma che comunque qualcosa ha combinato (la frase apre «Anna Karenina»). Per non parlare dell’esilarante ironia che si trova nel «Maestro e Margherita», di Bulgakov, un russo che non è arrivato in Italia con l’Alfa Lum di Primo Franchini, ma che comunque qualcosa ha fatto pure lui.
Tranquilli, mi fermo. È solo per dire che gli zavolini hanno letteralmente rotto i santissimi. Spacciano retorica per sentimento, il che è quanto di più ipocrita e ruffiano si possa concepire. Eppure, mezzo secolo dopo, sono ancora qui ineffabili. C’è gente di trent’anni che si compiace di fare giornalismo sepolcrale. Non so perché, ma ogni volta che si chiudono questi servizi mi aspetto di vedere il corridore intervistato che batte sulla spalla dello scrittore e gli dice «forza, su con la vita, magari domani va già un po’ meglio».
Purtroppo lo zavolismo è un pedante esercizio di maniera classificabile come vera e propria malattia. Si contrae con la zavolite, un morbo che dà subito febbre alta e che sinora si è dimostrato resistente a tutte le cure. Uno può somministrare a questi poveri pazienti dosi massicce di Mario Fossati, di Gianni Mura e di Giampaolo Ormezzano, ma non c’è verso: al momento danno qualche segno di miglioramento, ma non appena si presenta il problema di riempire gli spazi al Giro pensano subito di riproporre Zavoli, aprendo il mausoleo nel quale giustamente il Paese aveva rinchiuso la sua gloria. C’è speranza? Zero. Usando i loro toni mattacchioni, l’unica speranza è che la febbre alla fine risulti letale e se li porti via tutti, restituendoli alla terra. Da lì vengono, lì un giorno ritorneranno. All’agricoltura.
Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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