Ed allora via dal ciclismo, via almeno dal grande ciclismo, a partire dal 2001, Adriano De Zan, sulla scorta di quanto è trapelato dalle riunioni dei vertici aziendali Rai. Via dal ciclismo, per quelle esigenze sindacali che non contemplano i modi lirici: per raggiunti limiti di età, lui prossimo ormai ai 69 anni, lui che d’altronde da qualche stagione, sia pure mantenendo intatto l’aplomb di Padrone del Palco, altro ruolo non aveva se non quello di collaboratore esterno di RaiSport.
Via dal ciclismo, che poi era la fucina del suo vissuto quotidiano: un addio alle armi, una mutilazione intima lancinante, quando si è al cospetto di un se stesso tuttora nelle piene condizioni di attendere alle proprie mansioni, come per un chirurgo cui si rimuove il bisturi, come per un docente cui si sospende l’insegnamento, come per un giornalista o uno scrittore cui si zittisce la penna, o più ancora la firma. Il diritto di essere vivo, registrato solo ai sensi dell’anagrafe: ed abolito d’un tratto, con un frego blù. (Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano: in un limbo dove solo ai poeti, semmai, è concessa l’eterna giovinezza).
De Zan consegnato al silenzio: lui, se non in assoluto «the voice», almeno una grande voce, la voce perenne del ciclismo. Lì dove più che il timbro, quello suadente di Bruno Raschi, o quello inimitabile - alla don Marino Barreto jr - di Vincenzo Torriani, lì dove poté l’affetto, l’amore, la passione totale!
De Zan non è obbligatoriamente, sia ben chiaro, il «nostro» ciclismo, ma resta in assoluto il tramite, la «radio Londra» inevitabile, del ciclismo italiano della seconda metà del secolo. L’abbiamo, ad esempio, contraddetto con tenerezza, da giovani, al tempo di Raas: quando, sotto l’ala sorridente di Raschi, gli obiettavamo che Jan Raas quel mondiale dannato di Valkenburg ’79 l’avrebbe vinto lo stesso, anche se Battaglin non fosse caduto... Ed ancor più che se quella celebre codata assassina, sul rettilineo finale in salita, non l’avesse data Thurau a Battaglin, ma al contrario un italiano ad uno straniero, avremmo sentenziato che l’italiano era stato al massimo un «furbo», mica un «delinquente», come si esasperò alla Tv di allora su quel malvagio Thurau, assoldato dall’ancor peggiore Raas...
Esiamo stati ancor meno gentili con lui, lo sapete, dal ’98 a venire in qua, per un atteggiamento agnostico in eccesso, tra il corporativo ed il buonista ad ogni costo, sulle vicende del doping: quello di casa nostra, ovviamente, perché su Abdujaparov, ad esempio, o sui misteri di De Las Cuevas si era sempre in diritto di andar giù pesante. Ma tant’è. Non sono tali episodi, tali spigolature, nel computo totale di una vicenda pluridecennale, che possono invertire la caratteristica dominante del segno. Quella lì resta cronaca, con la sua coloritura emozionale, questa invece è già cristallizzata in storia. Via ufficialmente De Zan, ditelo come volete, se ne vanno via cinquant’anni. I vostri ed i nostri cinquant’anni; una lezione forse non perfetta, ma certo una memoria salda, confortante, che non avremo modo di costituire uguale.
Via dal ciclismo, dalla Sanremo e dalla Roubaix, via dalle classiche belghe, e chi vorrà rispiegarci elegantemente la distanza tra fiamminghi e valloni, via dalle tappe del Giro, via dal Tour, dai Mondiali, dal Lombardia... Via dagli anni diventati grandi, cullati dalla sua presenza e dalla sua familiarità per quasi 50 anni, perché De Zan cominciò a narrare il ciclismo in Tv addirittura nel ’54... Via dal bianco e nero e dalle prime telecamere mobili, via dalle moto al seguito della sua rudimentale stagione, quando semmai sul palco a contendergli il microfono c’era un gentiluomo di nome Adone Carapezzi... «Signore e signori, buon pomeriggio», quante attese nelle nostre e vostre giovinezze, a ruota di quella voce dal timbro franco, che non ammetteva le mattine. «Buon pomeriggio», già...
E la sua passione, uno sguardo d’intesa a Guerino Farolfi semmai, avrebbe raccontato tanti giorni speciali, quando Moser diventava «Francescooo» e Gimondi diventava «Feliceee», alle Roubaix del campione trentino, o al Mondiale inatteso che il campione di Sedrina conquistò nel ’73 in volata contro Maertens e Merckx... O anche gregari particolari che si riempivano per un giorno - scusateci, per un pomeriggio... - di gloria. Come quando Armani capitò in fuga con un Merckx scatenato contro Ocaña nella Orcieres Merlette-Marsiglia del Tour ’71 e nello sprint finale, con il belga arrembante, riuscì a vincere sì, ma per la gioia alzò troppo presto le mani dal manubrio e sembrò allora che Merckx lo superasse sul filo. «Lucianooo, ma che hai fatto!», la disperazione di De Zan e le lacrime di Armani. E poi il responso a lieto fine del fotofinish ed il loro abbraccio impudico.
Perché De Zan, di nome Adriano, figlio di un uomo di teatro veneto e di un’attrice napoletana, Maria Mascagno, quel De Zan lì, devoto di Raschi e Torriani e Zavoli - gli uomini migliori della nostra storia -, i ciclisti se li abbracciava tutti: dal vincitore all’ultimo arrivato, come si fa con i figli. E questo dato di fatto chiunque verrà dopo di lui, cioè l’ottimo Bulbarelli non dovrà mai dimenticarselo. Perché De Zan il ciclismo lo amava davvero: e lo tenga adesso al cuore ancor più il bravo e appassionato Giovanni Bruno, direttore di RaiSport, nelle sue difficili scelte a venire. Lo amava, e lo amerà ancora, per usare quel suo avverbio preferito, in un modo unico e prezioso: «estremamente».
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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