A un anno dall’entrata in vigore della riforma del Codice della Strada, il bilancio è drammatico: 222 ciclisti hanno perso la vita. Una riforma che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto garantire maggiore sicurezza a chi pedala e che invece si è rivelata, nei fatti, un fallimento.
Non staremo qui a ripetere il nostro “ve l’avevamo detto”, pronunciato già in fase di approvazione della riforma, quando ci rendemmo disponibili a mettere a disposizione la nostra esperienza legale e quella maturata direttamente sulla strada per correggere ciò che non funzionava — o meglio, ciò che non garantiva una reale tutela ai ciclisti.
Un’analisi basata sui fatti, non sulle opinioni
I nostri dati non sono teorici. Si fondano su oltre 1.800 sinistri seguiti, su migliaia di testimonianze raccolte, sull’esperienza diretta vissuta ogni giorno sull’asfalto dal 2017 a oggi. Un lavoro continuo, svolto sia sulle strade sia nelle aule di giustizia, con l’obiettivo di individuare le criticità reali di chi utilizza la bicicletta — per sport o per necessità — e di proporre soluzioni concrete e realistiche. In questi anni abbiamo smontato quasi tutti i falsi miti che accompagnano il mondo dei ciclisti, spesso alimentati da pregiudizi che finiscono persino nei verbali di polizia: si arriva a multare un ciclista per la mancanza del campanello dopo che è stato investito brutalmente, oppure per il mancato utilizzo di una pista ciclopedonale, facoltativa e spesso pericolosa per i ciclisti sportivi. Un dato su tutti emerge con chiarezza: i ciclisti non provocano danni, se non in percentuali del tutto marginali. Al contrario, subiscono danni gravissimi, quasi sempre causati da condotte illecite di automobilisti o conducenti di mezzi pesanti.
Il doppio danno: fisico e giudiziario
Il sistema legislativo attuale non tutela il ciclista né sulla strada né dopo l’incidente. Chi viene investito subisce spesso un secondo danno, ancora più mortificante di quello fisico: l’ingiustizia. Il risarcimento viene negato o ridotto, e la vittima - o i familiari - si trovano a combattere una battaglia giudiziaria impari. Un esempio emblematico è quello del cosiddetto “metro e mezzo”.
Il paradosso del metro e mezzo
La norma nasce con una buona intenzione: imporre una distanza minima di sicurezza nel sorpasso dei ciclisti. Ma subito dopo compie un’inversione pericolosa, aggiungendo la clausola: “ove le condizioni della strada lo consentano”.
Questa formula apre la porta a tutto:
– consente di non rispettare la distanza,
– permette di investire un ciclista e poi giustificarsi con le “condizioni della strada”,
– legittima l’accusa al ciclista di aver sbandato per evitare ostacoli.
Nelle aule di tribunale lo vediamo ogni giorno: in assenza di video o testimoni, ottenere giustizia diventa difficilissimo. Il timore delle conseguenze penali spinge spesso l’automobilista a negare anche l’evidenza, lasciando la vittima priva di tutela.
Le nostre proposte: paletti chiari, senza retromarcia
Per questo riteniamo doveroso far sentire la nostra voce e proporre soluzioni concrete a chi voglia davvero legiferare in favore della sicurezza dei ciclisti.
- Sì alla doppia fila dei ciclisti: In quasi tutta Europa è consentita perché è più sicura per tutti: i ciclisti sono più visibili, obbligano a rallentare, e il sorpasso avviene solo quando è realmente possibile, risultando più rapido e meno rischioso rispetto alla fila indiana.
- No all’obbligo di piste ciclabili: I ciclisti sportivi non possono allenarsi su piste ciclabili o ciclopedonali. Se si vuole garantire davvero la sicurezza, occorrono corsie dedicate oppure l’adozione di un principio ormai diffuso in Europa: la strada è di tutti.
- Corsie riservate sulle carreggiate: Fuori dall’Italia esistono ampie corsie ricavate sul margine destro delle strade, rispettate dagli automobilisti e utilizzabili in sicurezza dai ciclisti. È una soluzione concreta, già sperimentata con successo.
- Il metro e mezzo va riscritto: La norma deve essere inviolabile e incondizionata. In caso di contatto durante il sorpasso, deve scattare una presunzione di colpa dell’automobilista, salvo prova contraria in casi eccezionali. Un ciclista non può sbandare lateralmente più di 20 centimetri: se viene colpito, significa che il veicolo era troppo vicino e troppo veloce.
- Basta obbligo di tenere l’estrema destra: L’art. 143 C.d.S. costringe il ciclista a pedalare nella parte più pericolosa della carreggiata: sporca, dissestata, piena di ostacoli. Chi si allena sa cosa significa rischiare cadute o forature continue, senza alcun margine di fuga in caso di affiancamento di un veicolo.
Uno sguardo al futuro
Le proposte non finiscono qui: semafori dedicati, precedenze nelle rotatorie, divieti assoluti di sorpasso in determinate condizioni, obblighi di segnaletica adeguata, responsabilità degli enti manutentori, formazione più severa per gli automobilisti, e molto altro.
Siamo pronti a depositare un nostro disegno di legge: non un’utopia, ma una visione concreta, già realtà nel resto d’Europa.