E siamo qui, ad ogni inizio di febbraio, congedati gli ultimi giorni di gennaio. Siamo qui, noi che il ciclocross nonostante tutto ci piace ma non ci appartiene totalmente, e che ai Guerciotti e ai Borgocross di casa nostra eleveremmo purtuttavia una statua di candida ammirazione, siamo qui, quando di fuori si gela o tira troppo vento, a chiederci se rivedremo ancora in Italia una Sei Giorni.
Non sappiamo se chi legge conosce ormai quello di cui scriviamo, tanti anni sono trascorsi in assenza di una inversione di tendenza in merito, nella indisponibilità di un velodromo d’inverno, di un Vel d’Hiv. Ne leggiamo, stagione 2017, ormai solo sui siti e sul web, neppure sulla beneamata “rosea”, e cerchiamo di non amareggiarci più di tanto, ma razionalizziamo.
Ne leggiamo, noi che prediligiamo oggi Stroetinga e Lampater - e non ce ne frega oltre delle scelte di vita del calciatore Pinilla o del motociclista Rossi -, come un giorno Arnold e Terruzzi, avete conosciuto Terruzzi?, e il tempo dopo Bugdahl e Pfenninger, e se volete Duyndam, Pjinen, Renz, Frank e Gilmore e se volete pure Risi e Betschart, ne leggiamo delle Sei Giorni di Gand, di Copenaghen, di Rotterdam, di Berlino...
E ci chiediamo, non sorridete dell’ingenuità, cosa abbiamo noi in meno, cosa le nostre Città abbiano in meno, per non essere in grado di ospitare ed amare - questo, per certo, è il verbo vero - una Sei Giorni di ciclismo.
Oggi, che chiude nel mondo il circo Barnum, è il tempo onesto perché in Italia, mondaccio nello sport del calcio pluridimensionato straenfatizzato strapagato iperinflazionato, qualcuno si chieda perché lo spettacolo romantico ed accattivante, gentile e vertiginoso, della Sei Giorni di ciclismo non abbia più un palcoscenico, un ruolo, una icona da accendere sui led fosforescenti che vanno tanto di moda.
Il velodromo di estate può starci, d’accordo, Santi resta un padreterno in merito. Ma noi, Quelli della Notte, quelli dell’inverno, quelli di De Bosscher e Venix, di Bincoletto e Severeyns, quelli del derny che non è un brandy, ci chiediamo perché non si possa riproporre una Sei Giorni propriamente d’inverno, una Sei Giorni con gli attributi doc.
Non sappiamo sotto quale coltre sia celato il Vigorelli, se nel box numero “8” della edizione 1980 ci sia ancora di stanza il tandem Burton - Rosola, non sappiamo più di tanto del velodromo di Montichiari e del progetto che fa centro sul redivivo impianto di Marcianise.
Noi, ignoranti quali siamo, ci chiediamo cosa abbiano di meno le nostre Città, al di là della diseducazione sociale delle loro squadre di calcio, per non avere diritto allo spettacolo rutilante e letterario, pirotecnico e malinconico, fra Hemingway e Blondin, di una Sei Giorni di ciclismo.
Poveri voi - o fortunati voi, per non provarne così l’assenza -, a non averne vista alcuna.
La musica delle ruote era un fruscio e lo sarà ancora, millesimato come un Cru di champagne, ridondante nel Velodromo d’inverno.
E non sarà un caso, anzi per noi è un auspicio stentoreo, che l’ultima delle speranze della pista in corso abbia un cognome altero. Parliamo di Matthias, sì, il ragazzo belga di un ottimo futuro, che di cognome fa van Beethoven.
Lo ascolteremo mai, lontani dal rap e dal gap del calcio monocorde, in Italia?
Gian Paolo Porreca,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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