In pieno delirio da autostima, per via del successo, quanto meno di attenzioni, del mio ultimo libro (“I Cantaglorie - storia calda e ribalda della stampa sportiva”), provo a scrivere qui una sorta di capitolo speciale, riservato a quelli della mia tribù ciclistica. Provo cioè a mettere a confronto il nostro giornalismo ciclistico con il resto del mondo inteso come tutto l’altro giornalismo sportivo nostrano. So di giovani giornalisti italioti che, se per caso sono designati a seguire il Giro, dicono “uffa”, mentre so di intellettuali e scrittori veri, forti, specialmente francesi, che invano sperano per tutta la vita di seguire il Tour (d’altronde l’immenso Albert Camus, premio Nobel di letteratura, non una volta sola, disse che in fondo avrebbe preferito al grande riconoscimento la titolarità della rubrica “rugby” sul quotidiano L’Equipe).
Il giornalismo ciclistico presuppone, per quelle che sono le frequentazioni delle sue massime cattedrali, una vita itinerante. Giro d’Italia e Tour de France e Vuelta spagnola e altre corse a tappe sono in effetti cattedrali mobili, e i riti si svolgono oggi qua e domani là, oggi qui e domani lì. Anche non dovendo pedalare, trattasi di distanze importanti da percorrere ogni giorno, in auto o in motocicletta. C’è tutta una storia zingara (aggettivo esagerato e intanto troppo usato per dire di spostamenti dietro ai ciclisti pedalanti) che fascia l’inviato speciale, anzi il suiveur per continuare a parlare almeno qui un po’ di francese. È una storia largamente enfatizzata, e fattasi esagerata specialmente da quando il boom delle grandi arterie di comunicazione e della disponibilità alberghiera hanno tolto alle strade della corsa e alle località di sosta quel romanticismo, fatto di polvere e disagi assortiti, che valeva come una medaglia conquistata al fronte. L’ex zingaro adesso va al traguardo usando le autostrade che gli risparmiano spesso molti chilometri, di regola dorme in ottimi alberghi, e ha la televisione che gli garantisce la visione della corsa anche se lui incappa in curiosi accidenti o si trascina dietro pigrizia e paura di incidenti.
Nonostante tutto questo, la trasferta ciclistica è assai più dura della trasferta calcistica, dove l’inviato sin troppo speciale usa l’auto o il treno o l’aereo per recarsi nella città del match, di solito staziona in ottimi alberghi, sfrutta spostamenti comuni del suo gruppo di lavoro per andare allo stadio dove mica ci sono da affrontare salite e discese per vedere i corridori, ma dove tutto si svolge sotto gli occhi, e il massimo esercizio fisico richiesto è lo spostamento del peso del corpo da una natica all’altra. Di solito il posto dove prendere appunti e scrivere è al coperto, e ci sono rifornimenti in loco (caffè e panini), mentre il lavoro postpartita si svolge in un’accogliente sala-stampa appena lì dietro la tribuna, con aiuti vari da parte di personale qualificato. Più o meno questo è il rituale di tutte le grandi manifestazioni da stadio (stadio del nuoto, ma anche palasport e impianti simili).
Quasi tutti gli sport, specie se si tratta di giochi sportivi, offrono al giornalista che li vuole seguire comodità e facilitazioni che rendono comunque la trasferta meno faticosa, meno impegnativa, meno assorbente di quella ciclistica (e parliamo anche di corse di un giorno solo, pur sempre con un tratto di strada da colmare fra partenza e arrivo, a meno che si tratti - cosa rara - di circuiti). Ci sono obiettive difficoltà soltanto relativamente a certi sport che si svolgono in ambienti climaticamente ostili: si pensi a tutta la gamma delle discipline invernali, pattinaggio a parte: c’è da battere i piedi e i denti per il freddo, da rischiare scivoloni sulla neve o sul ghiaccio, da patire comunque la montagna, l’altitudine, l’aria fredda e la rarefazione dell’aria.
In sostanza, il ciclismo è lo sport che chiede di più, o che offre di meno. Posso dire che per seguire il ciclismo ci vuole anche il fisico. Si pensi al correre dietro ai ciclisti che hanno appena tagliato il traguardo, agli incontri di wrestling e judo per avvicinarli frangendo muri di gente festante o arrabbiata. E questo alla fine di una giornata comunque assai attiva, con sveglia di solito sul presto, chilometri e chilometri di strada, pasti improvvisati o - più dannosi ancora - pasti solenni con problemi di digestione. Sono in linea di massima finiti i tempi eroici dei trasferimenti supplementari a fine tappa per andare a trovare un letto qualsiasi in località remote, ma si deve dire che l’hotel conquistato dal giornalista calcistico la sera della vigilia del match risulta comunque più accogliente dell’hotel finalmente conquistato il pomeriggio del giorno stesso della competizione, e destinato ad un uso di poche ore, visto che il mattino si riparte.
Ma dove voglio arrivare? Semplicemente a dire che il giornalismo ciclistico è quello più faticoso, più impegnativo, più selezionante, più affaticante, più vivo, più mosso, più “sudato”, insomma più sportivo. E se poi, dopo 28 Giri d’Italia, 12 di Francia, 24 Giochi Olimpici e altre quisquiglie, anche calcistiche si capisce, devo scegliere il reportage per eccellenza, quello che vorrei sempre rifare, dico il Tour de France: la spiegazione alla prossima puntata.
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