Rapporti&Relazioni
Ci vuole il fisico

di Gian Paolo Ormezzano

In pieno delirio da autostima, per via del successo, quanto meno di attenzioni, del mio ultimo libro (“I Cantaglorie - storia calda e ribalda della stampa sportiva”), provo a scrivere qui una sorta di capitolo speciale, riservato a quelli della mia tribù ciclistica. Pro­vo cioè a mettere a confronto il nostro giornalismo ciclistico con il resto del mondo inteso come tutto l’altro giornalismo sportivo nostrano. So di giovani giornalisti italioti che, se per caso sono designati a se­guire il Giro, dicono “uffa”, men­tre so di intellettuali e scrittori veri, forti, specialmente francesi, che invano sperano per tutta la vi­ta di seguire il Tour (d’altronde l’immenso Albert Camus, premio Nobel di letteratura, non una volta sola, disse che in fondo avrebbe preferito al grande riconoscimento la titolarità della rubrica “rugby” sul quotidiano L’Equipe).

Il giornalismo ciclistico presuppone, per quelle che sono le frequentazioni delle sue massime cattedrali, una vita itinerante. Giro d’Italia e Tour de Fran­ce e Vuelta spagnola e altre corse a tappe sono in effetti cattedrali mobili, e i riti si svolgono og­gi qua e domani là, oggi qui e do­mani lì. Anche non dovendo pedalare, trattasi di distanze importanti da percorrere ogni giorno, in auto o in motocicletta. C’è tutta una sto­ria zingara (aggettivo esagerato e intanto troppo usato per dire di spostamenti dietro ai ciclisti pedalanti) che fascia l’inviato speciale, anzi il suiveur per continuare a par­lare almeno qui un po’ di francese. È una storia largamente enfatizzata, e fattasi esagerata specialmente da quando il boom delle grandi arterie di comunicazione e della disponibilità alberghiera han­no tolto alle strade della corsa e al­le località di sosta quel romanticismo, fatto di polvere e disagi as­sortiti, che valeva come una medaglia conquistata al fronte. L’ex zingaro adesso va al traguardo usando le autostrade che gli risparmiano spesso molti chilometri, di re­gola dorme in ottimi alberghi, e ha la televisione che gli garantisce la visione della corsa anche se lui in­cappa in curiosi accidenti o si trascina dietro pigrizia e paura di in­cidenti.

Nonostante tutto questo, la trasferta ciclistica è assai più dura della trasferta calcistica, dove l’inviato sin troppo speciale usa l’auto o il treno o l’aereo per recarsi nella città del match, di solito staziona in ottimi alberghi, sfrutta spostamenti co­muni del suo gruppo di lavoro per andare allo stadio dove mica ci so­no da affrontare sa­lite e discese per vedere i corridori, ma dove tut­to si svolge sotto gli occhi, e il massimo esercizio fisico richiesto è lo spostamento del peso del corpo da una natica all’altra. Di solito il posto dove prendere ap­punti e scrivere è al coperto, e ci sono ri­for­nimenti in loco (caffè e panini), mentre il lavoro postpartita si svolge in un’accogliente sala-stampa appena lì dietro la tribuna, con aiu­ti vari da parte di personale qualificato. Più o meno questo è il rituale di tutte le grandi manifestazioni da stadio (stadio del nuoto, ma anche palasport e impianti si­mili).

Quasi tutti gli sport, specie se si tratta di giochi sportivi, offrono al giornalista che li vuole seguire comodità e fa­cilitazioni che rendono comunque la trasferta meno faticosa, meno im­pegnativa, meno assorbente di quella ciclistica (e parliamo anche di corse di un giorno solo, pur sem­pre con un tratto di strada da colmare fra partenza e arrivo, a meno che si tratti - cosa rara - di circuiti). Ci sono obiettive difficoltà soltanto relativamente a certi sport che si svolgono in ambienti climaticamente ostili: si pensi a tut­ta la gamma delle discipline in­vernali, pattinaggio a parte: c’è da battere i piedi e i denti per il freddo, da rischiare scivoloni sulla ne­ve o sul ghiaccio, da patire comunque la montagna, l’altitudine, l’aria fredda e la rarefazione dell’aria.

In sostanza, il ciclismo è lo sport che chiede di più, o che offre di meno. Posso dire che per seguire il ciclismo ci vuole an­che il fisico. Si pensi al correre dietro ai ciclisti che hanno appena ta­gliato il traguardo, agli incontri di wrestling e judo per avvicinarli frangendo muri di gente festante o ar­rabbiata. E questo alla fine di una giornata comunque assai attiva, con sveglia di solito sul presto, chilometri e chilometri di strada, pasti improvvisati o - più dannosi ancora - pasti solenni con problemi di digestione. Sono in linea di massima finiti i tempi eroici dei trasferimenti supplementari a fine tappa per andare a trovare un letto qualsiasi in località remote, ma si deve dire che l’hotel conquistato dal giornalista calcistico la sera del­la vigilia del match risulta co­mun­que più accogliente dell’hotel finalmente conquistato il pomeriggio del giorno stesso della competizione, e destinato ad un uso di poche ore, visto che il mattino si riparte.

Ma dove voglio arrivare? Semplicemente a dire che il giornalismo ciclistico è quello più faticoso, più im­pegnativo, più selezionante, più af­faticante, più vivo, più mosso, più “sudato”, insomma più sportivo. E se poi, dopo 28 Giri d’Italia, 12 di Francia, 24 Giochi Olimpici e al­tre quisquiglie, anche calcistiche si capisce, devo scegliere il reportage per eccellenza, quello che vorrei sem­pre rifare, dico il Tour de Fran­ce: la spiegazione alla prossima puntata.

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