Eppure c’è uno sport che sogna ancora...
di Gian Paolo Porreca
Non aspettiamo domani, per scrivere. Non aspettiamo la “Liegi” e il suo risultato, Bartoli e Casagrande, Boogerd e Pantani, Armstrong e Bettini, Rumsas e Museeuw. Ci è bastato già oggi, con la sentenza sul caso Empoli, per fare il pieno del Brutto. E ci è bastato già ieri l’altro, due domeniche fa, al Giro delle Fiandre, quello vinto da Tafi, per fare il pieno del Bello.
Quello che abbiamo imparato oggi, nella sconfessione disarmante di ogni norma di realismo, di buon senso, di civiltà dello sport, operata dalla Commissione Disciplinare della Legge Calcio, è che il fondo, il punto più basso, in questo sport odierno - su quel suo versante improprio, di nome calcio - non era ancora stato toccato. Altroché.
Non era nello scandalo passaporti, non era nelle valutazioni stratosferiche, nel bailamme patetico degli allenatori, nell’avanspettacolo di una Domenica Sportiva equipollente ad una Domenica Calcistica o nei teatrini analoghi di Mediaset popolati di preziosi ridicoli, tutto e il contrario di tutto, sciocco chi vede&legge, e patetico chi se ne scrive ancora... Nelle manfrine e nelle violenze allucinanti, vi ricordate Roma-Galatasaray?, e nei falli commessi sui campi da gioco, negli ostracismi altezzosi agli arbitri, sbandierando senza un minimo senso del pudore un diritto di veto stile ONU d’antan...
Non era nella muscolarizzazione denunciata nel ’98 da Zeman, un occhio particolare di riguardo alla celebre scuola Juventus, non era in quei tanti campioni (?) rotti a settimane alterne, chissà mai perché, ma senza chiedersi troppo il perché, tanto accà nisciuno è fesso. Non era nel vagone di farmaci al seguito - do you know? - che la Nazionale italiana si portò dietro, ai Mondiali di Francia.., qualche tempo fa pubblicata con dovizia di particolari dalla stampa francese e singolarmente lasciata correre dai ligi mass-media nostri, perché obviously non si trattava di ciclismo o di sci di fondo ma di calcio, di eroini a cui si dà abitualmente del tu... Non era negli esiti atletici sorprendenti di certi giocatori e di certe squadre spagnole, ve lo ricordate il Valencia di Cuper che il mondo intero faceva tremare, spenti o spente al varcar delle frontiere...
Il peggio che doveva arrivare era, con la storia dell’Empoli, una sentenza che cancellava di fatto la responsabilità oggettiva, cardine primario e inalienabile dei regolamenti sportivi, per cui diventa peccato veniale, espiabile con un pagamento in moneta che sarà di certo ampiamente solvibile, truffare un controllo antidoping. Una società paga per il comportamento dei propri spettatori, non tesserati, e non paga invece per il comportamento di un proprio tesserato!
Il peggio pensavate che fosse stato, nel ’98, sempre nel recinto famelico del calcio, i controlli a campione sugli anabolizzanti, uno ogni quattro, per intenderci, scelti chissà come poi? Il peggio, amici, che tante volte ci avete letto censori rigorosi degli errori del ciclismo, era ratificare la liceità dell’imbroglio. Scegliere a priori i calciatori della propria squadra da far controllare all’antidoping non rappresenta, per la Commissione Disciplinare della Lega Calcio, un reato tale da punire per infrazione alla legge (ed allo spirito della legge) di Stato contro in doping.
Che vergogna! E noi che abbiamo sempre plaudito all’impegno dei Nas, dei Pm, del Procuratore capo dell’antidoping Aiello, nel mondo del ciclismo, oggi ci sentiamo presi letteralmente per il sedere. Noi ed il nostro - comune - senso della giustizia e della verità, primi cardini di uno sport, di una attività sportiva che sia degna di tale nome e della sua valenza educativa. Quel senso della giustizia e della verità che passa doverosamente per l’amarezza delle squalifiche chieste per Elli e Figueras, per Mondini e Di Grande, per la malinconia del tramonto di Pantani stesso.
Che vergogna, questa liberalizzazione del dolo concessa al calcio dalla sentenza sul caso Empoli. Che ingrata fine, punto di arrivo addirittura imprevedibile dopo le pure edulcorate pene sul nandrolone, fra Stam e Guardiola, Davids e Couto...
Alla Commissione Disciplinare della Lega Calcio, per confortarsi l’anima con un diverso criterio dello sport, diverso da quello che - cui prodest? - indicava con un puntino i giocatori ad arte al prelievo antidoping, niente di grave per carità, affidiamo come una lezione cristiana il fiore del bello. Affidiamo loro, allora, il bouquet di Tafi.
Il gesto, a loro certamente ignaro, neanche Tosatti, pur allievo ormai dimentico di Bruno Raschi lo avrebbe colto nella bagarre di quella domenica sportiva, e non consono al degrado del calcio cui colpevolmente si continua a dare spazio e ragion d’essere, di Tafi, in quel Giro delle Fiandre che poi avrebbe vinto.
Il gesto affettuoso, la pacca sulle spalle di Andrea Tafi, il numero “77”, ad Erwin Thijs, il numero “246”. Sì, Thijs, quello sconosciuto belga della Palmans, raggiunto a 20 chilometri dall’arrivo, dopo una fuga di oltre 200 chilometri.
Eccoli lì lo sport, vossignori, quello sport che avete delegittimato con la vostra sentenza, eccolo, il bello che torna. La pacca sulla spalla, lo spirito, il rispetto e l’onore dell’avversario sfortunato, al momento del ricongiungimento. E della fine del sogno di Thijs.
Perché se c’è uno sport nel 2002 che sogna ancora, ebbene sì, è solo il ciclismo.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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