Argomento purtroppo destinato ad essere attuale a lungo. Dunque: forse mai nella sua lunghissima storia una Milano-Sanremo ha avuto in Italia una eco mediatica così tanto ridotta rispetto al suo appeal potenziale come quella del 17 marzo ultimo scorso. Non solo non ha vinto il sin troppo atteso Moreno Moser, non solo non ha vinto Peter Sagan lo slovacco talentuosissimo che parla italiano, ha vissuto in Veneto e magari potevamo naturalizzare senza troppi problemi, non solo ha vinto un tedesco, Ciolek, del quale si sapeva poco prima e non è che si siano sapute cose sensazionali dopo, ma è stata buttata via la possibilità di fare una scorpacciata col mito, e mito di prima qualità, mito tragico o quanto meno fachiristico. E Dio sa se il nostro pallido ciclismo di questi tempi, il nostro ciclismo niente combattivo di fronte alla tracotanza di altri sport rutilanti di denaro e sesso e rock and roll, nonché privi di serio antidoping, il nostro ciclismo povero e mite di mito ha bisogno. Il nostro ciclismo pieno di miti da intendere soltanto come plurale di mite, non di mito.
C’era la neve sul Turchino? Benissimo. Sarebbe stata durissima procedere, roba da fachiri? Benissimo. C’era il rischio della corsa definitivamente bloccata? Meglio ancora, se dalla neve, lì sulla strada, e non da un comunicato. Meglio comunque di una Sanremo come quella che ci è stata ammannita, con stop a Ovada e ripartenza da Cogoleto, con proteste di chi non voleva la mutilazione del percorso, con proteste di chi, corridore, veniva trasferito al di là del Turchino con mezzi sommari e non su confortevoli torpedoni trasformati in alloggetti dove qualcuno ha potuto fare anche una doccia calda, con sospetti su chi, ritiratosi prima dello stop, sarebbe ripartito “regolarmente” da Cogoleto…
Non siamo sadici e cinici, siamo pratici e realistici. Un inverno postdatato ha servito al ciclismo una occasione strepitosa di riconquistare spazi mediatici, il ciclismo l’ha gettata via. Non ci importa niente che polizia stradale e organizzatori e signor Buonsenso abbiamo preso insieme la decisione. Per galleggiare e andare avanti nello sport di adesso, nel mondo tutto di adesso, il signor Buonsenso in certe circostanze non serve, è uno che ti tira giù, sul fondo.
Più volte abbiamo suggerito al ciclismo, per riconquistare terreno o anche per non perdere troppo territorio, di coltivare ostentatamente il senso romantico di se stesso, la propria poetica umiltà. Però, di fronte ad una Milano-Sanremo alla vigilia quasi massacrata dall’indifferenza di giornali e televisioni, avremmo voluto una botta di orgoglio, una realistica sfida appunto al Buonsenso.
L’occasione era sin troppo propizia, alla gente che pativa sulla sua pelle la eccezionalità del maltempo si offriva il sacrificio dei ciclisti, interpreti di una parte straordinaria, dura, da attori popolari, attori presi dalla vita di tutti i giorni.
Anticipiamo l’obiezione: e se si verificava la tragedia, una qualche tragedia umana dentro la tregenda atmosferica? Possibile, ma come può accadere in qualsiasi gara ciclistica, anche se splende il sole. Possibile, ma non probabile quando il maltempo impone una speciale prudenza. Possibile, come nel 1956 quando il Giro d’Italia salì nella neve sul Bondone - se ne parla ancora - che è ben più di un Turchino, i corridori arrivarono avviluppati dal mito, paludati nel mito, e pazienza se stravolti (un quotidiano sportivo pubblicò una grande fotografia in prima pagina, dicendo “ecco la faccia disfatta del vincitore, il lussemburghese Gaul”, era la faccia dello svizzero Graf ma quasi nessuno se ne accorse). Possibile, come nel 1988 quando il Giro aggredito da una bufera improvvisa di neve scollinò sul Gavia tremendo, fra pericoli infinitamente maggiori di quelli prospettati dal Turchino, e la tappa venne comunque conclusa. Possibile come quando, varie volte, il Giro è salito allo Stelvio, i corridori pedalanti fra pareti bianche, vietato alle auto l’uso del clacson perché certe vibrazioni possono provocare valanghe, specie con neve primaverile: e una valanga aggredì e spostò l’auto su cui stava chi scrive queste righe, un po’ di paura, tanta soddisfazione per avercela fatta quando la nube bianca si dissolse e vedemmo Giuseppe Pirovano, il guru del locale tempio dello sci estivo, grande alpinista, buon amico, vedemmo “il Piro” che ci sorrideva.
Non siamo per la sfida incosciente, anzi. Però una discesa sull’asciutto agli 80 all’ora è molto ma molto più pericolosa di una lenta ascesa sulla neve. Davvero, l’occasione di un mito grande frequentabile con pericolo non eccessivamente grande era ghiotta assai. La gente vuole lo sport estremo, il ciclismo poteva offrirgliene uno scampolo, fra l’altro senza tecnologie invasive, sport estremo ma sanamente popolare, niente a che vedere con l’aristocrazia di certi gesti speciali, di certe performances sofisticate. La conta delle riserve e delle esplicite critiche allo stop è stata tenuta onestamente anche dal giornale organizzatore, e sono risultati non pochi quelli che avrebbero voluto la scalata del Turchino. E noi chiudiamo con una domanda. Si pensi alla stessa situazione climatica, però alla corsa disputata in Francia, in Svizzera, in Belgio: ci sarebbe stata la stessa mutilazione?
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