Gatti & Misfatti
Il ciclismo pagliaccio

di Cristiano Gatti

Non so se sono l’unico, ma negli ultimi tempi percepisco e male sopporto una certa tendenza del ciclismo moderno, tutta protesa a costruire spettacolo nel modo più tortuoso, più contorto e più strano.

Metto assieme le pri­me cose che mi sono mentalmente segnato. Subito: sarà anche avvincente, anzi altamente emozionante, che il Giro d’Italia si decida con il gioco degli abbuoni, ma addirittura rendere questo gio­co diabolico e perverso al punto da rovinare un tizio (Ro­dri­guez) a beneficio di un altro (Hesjedal), mi sembra decisamente insopportabile. Già il Giro di Menchov e Di Luca si era giocato molto su questi pre­mi finali, ma almeno quella vol­ta tutti sapevano che il premio c’era ovunque, cronometro a parte (domanda nella domanda: perché cronometro a parte? Perché il vincitore di una cronometro non merita il premio di 20’’: vogliamo dire che fa me­no fatica di un velocista e di una scalatore?). Discutibile la fi­losofia dell’abbuono, personalmente lo abolirei ovunque e per sempre, ma comunque se premiano tutte le tappe possiamo farcene una ragione, quanto meno sopravvive un certo concetto di giustizia. Quest’anno invece abbiamo voluto cavare il coniglio dal cilindro: abbuoni sì, ma non sempre, a giorni al­terni (l’anno prossimo ad estrazione). Esclusi addirittura gli ar­rivi in salita, dove per definizione il primo andrebbe premiato a maggior ragione. Nien­te: in cima alle montagne nessun premio. Con il risultato pre­vedibile che abbiamo poi vi­sto: in certi tapponi i grandi non si sognavano nemmeno di annullare la fuga dei peones, concentrandosi nelle faccende loro, così che il tappone - a li­vello di ordine d’arrivo - diventava tappina. E alla fine il ca­po­lavoro totale: Rodriguez, che più di tutti meritava la vittoria, piegato dal regolarista Hesjedal nel cervellotico calcolo degli ab­buoni. Complimenti per il col­po di genio: a furia di inventarci il ciclismo del famolo strano, questo è lo spettacolare risultato.

Vogliamo parlare del Tour? E parliamo pure del Tour. Anche qui, sempre alla ricerca degli effetti speciali. Con questa bellissima opera d’arte: cento chilometri a cronometro. Lo sappiamo che co­sa significhi il dato: è una quantità monumentale. Hai vo­glia di dire che lo scalatore può rifarsi in montagna: ma da quando, nelle epoche contemporanee, uno scalatore può uma­namente pensare di rimontare i cinque-sei minuti lasciati nelle tappe a tempo? Al Tour, poi, dove le montagne arrivano in dosi omeopatiche. Diciamo le cose come stanno: è come correre ad handicap. In prima fila i grandi specialisti della crono (vedi Wiggins ed Evans), che ovviamente in salita non sono brocchi, a cinque minuti gli eroi della montagna. Così al via. Poi la grande sfida: gli uni a difendere il vantaggio, gli altri a tentare la pazzesca ri­monta. Ma è giusto tutto questo? È davvero il ciclismo equo e solidale, semplice e lineare, che dovremmo aspettarci? Io dico che così non sta in piedi, che è troppo sbilanciato, che è troppo strambo. Se però vogliamo dire che ormai il ciclismo sta cercando di tutto, fuorchè la semplicità e la linearità, allora non ho nulla replicare: ci sia­mo, è la formula giusta, abbiamo il ciclismo eccentrico e svitato che tutti sognano. Tutti???

Ci sono anche altre cose che fatico a capire. La più recente è questa grande scelta delle sovrapposizioni nel calendario, così che lentamente riusciremo ad avere tante gare nelle stesse giornate, tutte però mezze gare, perché qualcuno sarà sempre da un’altra parte. Ma va bene così: fa­molo strano, molto strano, perché la normalità non ci piace più. Sa troppo di buonsenso, forse. Dev’essere per questo.

E prendiamo pure le ma­glie dei grandi giri che vogliono premiare il mi­glior scalatore. Questa non è una stranezza recente, purtroppo viene da lontano, ma non per questo me la spiego facilmente. Facciamoci caso, la ma­glia inventata apposta per mettere sul piedistallo il ciclista più forte in montagna finisce nove volte su dieci per premiare un pisquano qualunque (con tutto il rispetto, nemmeno il caso di dirlo). Chiedo: il più forte scalatore è quello che si porta avanti, inseguito da nessuno, scollinando sulle cime più insulse, oppure è quello che sulle salite vere e decisive stacca la concorrenza per la classifica generale? È scalatore più forte Virenque o Armstrong? Restando all’ultimo Giro: sono stati più forti in montagna Rodriguez e Hesjedal o il pur valoroso Rabottini? Io una risposta ce l’ho. Tant’è vero che poi mi chiedo sempre perché mai si debba perpetuare questo rito della maglia scalatori, se in realtà non è altro che una maglia di consolazione per i temerari di mezza mattina. Però pare che questa sia una bestemmia: guai mettere in discussione la sacra certezza della classifica scalatori. Famola strana, pure quella: è il ciclismo che vogliamo. Zero normalità, zero logica, zero semplicità. Chissà se è per questo che al Tour la maglia del miglior scalatore è bianca a palle rosse: vedendo certi leader di montagna, l’impressione è che in realtà debba premiare il miglior pagliaccio.
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