Certo, due anni fa, era un amore di maggio, su quel palco analogo, alla Rotonda Diaz, c’era stato Lance Armstrong, la prima volta che vedeva Napoli, il texano, al Giro d’Italia 2009: Menchov in rosa, Di Luca a guatarlo.
Ma per il ciclismo, dalle nostre parti, Napoli&Campania, impera come suggerisce il refrain di una canzone, un concetto inderogabile: «non mi basta più il ricordo, voglio il tuo ritorno».
E così non è naturale nè giusto chiedersi perchè sia stata l’Udace e non un Comitato emanazione della Federazione ad organizzare, a fine febbraio 2011, primavera ancora lontana, un felice criterium a via Caracciolo, sul lungomare più bello del mondo, o giù di lì. Per il ciclismo dalle nostre parti, chiunque ne sia il promoter, in epoche di carestie, è fondamentale la presenza, lo spazio, la proposta, il dettato, l’emozione.
E così una kermesse di arrembanti cicloamatori, per iniziativa di Franco D’Amore e di Alessandro Avolio, con il supporto di un Assessore attento alla bici come Rino Nasti, può meritare, a pieno titolo, tra atleti che il ciclismo maggiore lo hanno vissuto, come Pasquale Santoro, o almeno sfiorato, come Domenico Ercolano, e dilettanti di lungo corso come Antonio Valletta, la nobiltà del 1. Trofeo Città di Napoli.
Via Caracciolo, di domenica, cielo pallido, la gente variopinta di quel Giorno di Festa che ci rende uguali agli altri e migliori di noi nei giorni feriali, un mare color metallo, le vele come pensieri in bilico, i palloncini nel cielo...
Il ciclismo la ritrova ogni volta, così, fra Posillipo ed il Castel dell’Ovo, noi ne siamo testimoni ormai irraggiungibili, tanti giri di vantaggio ormai, come fosse casa.
Come se su quel lunghissimo rettilineo ampio, sconfinato, da far coesistere nella stessa prospettiva su corsie parallele auto e bici, nel 2011, si replicasse da un tempo immemorabile la Volata Perfetta. Un testo recitato da attori diversi, dal lignaggio variabile, fossimo anche noi stessi, in scena. Senza ceretta, senza cerone.
Lì dove sfrecciò Mario Cipollini, al Giro ’96... Lì dove partì una non lontana edizione del Giro delle Regioni di Eugenio Bomboni. Lì dove, se la civiltà di una città, anche Napoli, è commisurata dalla sua ciclabilità, ogni domenica, con la etichetta “ecologica” o meno, sembra una scommessa vinta.
Lì dove, ancora, un traguardo su strada sembra il perfetto sviluppo in linea di una pista, di un Velodromo.
E d’altra parte, se ieri sono stati soltanto i dilettanti regionali ed extraregionali dell’Udace, cinquanta anni fa, quando la Pista esisteva davvero per il ciclismo e per il ciclismo italiano innanzitutto, su via Caracciolo si cimentavano in una sorta di Sei Giorni riassunta in dieci ore, come fosse un Bignami del latino, protagonisti assoluti quali Maspes ed Harris, per una rivincita ancora, Faggin e Simonigh, Gaignard e Plattner, Morettini e Gaiardoni, Sacchi ed Ogna...
E dove, buoni da rileggere in una stagione come l’attuale, dalla morale malferma, quaggiù come altrove, ci segnavamo a buona memoria due episodi.
Quel signore col cappello che perentorio ci redarguì, noi bambini, “ma perchè non tifate Gaiardoni, che è un italiano, e tifate invece Maspes, che è uno straniero?”...
Ed Enzo Sacchi, il velocista fiorentino, che minacciosamente il pubblico prendeva di mira, perchè lo aveva identificato - a torto - come l’atleta che aveva rivolto uno sputo verso le transenne... «No, non sono stato io» - mi sembra ascoltarlo e vederlo ancora - «è stato lui», indicando senza tema di smentite lo svizzero Plattner, che di certo non risultava modello arcinoto di correttezza.
«No, non stato io». Come se l’atto volgare dello sputo, la mano sul cuore del buon Sacchi, fosse un gesto totalmente improprio per il decoro e per lo sport. Per il ciclismo. E per Napoli. Almeno a via Caracciolo. Ed almeno 50 anni fa.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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