C’è già chi pensa, di dicembre, agli appuntamenti della stagione prossima, ai Grandi Giri, al Mondiale... C’è chi pensa a chi verrà dopo Contador, se permarrano in auge gli Schleck brothers, se continueranno a sorridere Basso e Nibali, se Cunego rifiorirà, lui che pur sempre un Giro lo ha vinto, se Menchov e Di Luca disputeranno ancora un Giro di testa...
Sarà. Ma nella nostra osservazione sempre più laterale di questo sport, timorosi come purtroppo siamo di nuove accensioni e rinnovate disillusioni, il personale pensiero per dicembre lo rivolgiamo ad un passato recente, dal quale deriviamo tuttora una preziosa lezione sentimentale.
Noi vogliamo tornare, per dicembre 2010, no, non ad una vittoria eclatante, ad un trionfo a luci alogene, no. Bensì ad una sconfitta, sì, alla figura di un atleta a testa china, di un uomo a luci basse. Di dicembre 2010, per uno sguardo dall’alto.
Vogliamo tornare con voi al Tour ultimo, al pomeriggio di domenica 11 luglio, alla tappa alpina di Morzine-Avoriaz, alla salita del Col de la Ramaz, una cinquantina di chilometri dal traguardo, al caldo dell’estate.
Vogliamo tornare ad una immagine e ad una idealità che non riusciamo a rimuovere dalla mente, di quella giornata: molto più della vittoria di Evans, e mille volte ancor più del futuro dilemma Contador-Schleck.
Parliamo del corridore con il dorsale “21” di quella corsa, maglia rosso-nera RadioShack, il numero “21” del Tour, di spalle, in quella foto sulla Gazzetta: Lance Armstrong.
Per dicembre, ci conserviamo vivo ancora il memento del suo calvario, campione di quasi 39 anni al secondo anno di quel suo terzo tempo agonistico, in corsa, vittima in quella tappa di una sequenza di cadute impressionanti: prima, quasi al via, poi, in due occasioni successive, alle pendici del Col de la Ramaz, mentre si accendeva la battaglia vibrante in testa.
Ci conserviamo vivo il dolore e la lezione del suo perduto amore: distaccato, in difetto totale di speranza, per forza di cose, eppure continuare a salire, a pedalare, Armstrong. La retorica, per noi, e non per inciso, abiterà sempre altrove da un atleta che come lui si mette in gioco e non tradisce. Ed arriva in fondo, non recalcitrante, arriva in fondo al suo calice, 39° al traguardo, dodici minuti di ritardo, gli occhi chini, rastrellando sulla strada quegli applausi che semmai non aveva raccolto nell’età troppo estesa della gloria.
Per dicembre, fosse pure per Natale, ci regaliamo - egoisticamente? - ancora quella summa di emozioni, dalle immense sfumature, raccolte in un finale. Ed in quella fotografia. Il numero “21”.
Siamo qui, e siamo lì. E ci interroghiamo, condivisi forse, sulle sensazioni struggenti di quei momenti, di quei chilometri. Il concetto della malasorte che di improvviso si accanisce contro. L’idea di un tempo amico dileguato. La certezza dolorosa, già scritta in una altra pagina, che portava a dettare in Lance un «non sono più un ragazzo»... I gregari a fianco che scalpitano di futuro, anche se Chris Horner non è certo giovane, quel Brajkovic di nome Janez lo è, eccome... Quel futuro nostro che è passato. Siamo qui, certo, e siamo lì ancora.
Chissà, nel suo pensiero, ancora, lo zigzag lancinante del pensiero: inseguire chi non fa più la stessa corsa, o tu che non fai più invece la corsa degli altri. La vanità del tempo, che non è più una cronometro breve. Fare la conta dei giorni finiti.
Il numero “21”. Come fosse anche di dicembre una data sacra per l’amore, c’è qualcuno a viverlo dentro come un figlio, con noi, chissà. Quel giorno, molto prima del Natale, in cui un ciclista è tornato idealmente ancora un Uomo migliore. Senza la condanna ad essere campione.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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