È in libreria La mia prima bicicletta, (Ediciclo, pag. 150, 10 euro), collage a più voci, in cui 31 personaggi noti della cultura e della letteratura, dalla Hack alla Tamaro, da Mura a Favetto, da Rumiz a Pastonesi, raccontano il loro primo approccio con la bici. Ospitiamo qui, per gentile concessione dell’editore, il contributo del nostro collaboratore Gian Paolo Porreca.
La mia prima bicicletta
Lasciavo Sandokan e Tremal-naik, per salirci su, la mattina presto, in campagna, le estati a Carano, la mia prima bicicletta. Lasciavo le mani ruvide della nonna Rosina che stropicciava ancora il mio viso di acqua fresca, lei che diceva che mi lavavo come i gatti: e via. Il Tourmalet, l’Izoard, l’Aubisque erano lì, sui cento metri di un sentiero sdrucito fra gramigna e terreno, dalla casa nostra a quella dei contadini, più in su. A cavallo di un ponte di legno malfermo.
La mia prima bicicletta era lì, una ‘Bianchi’ 18, con tanto di manubrio da corsa e borraccia, di latta come una stella da sceriffo, ed addirittura il cambio di velocità, incredibile, che un ingegnoso artigiano di Sessa Aurunca, in quella bottega vicino alla Chiesa della Annunziata, era riuscito ad adattare ad una bici così piccola: e la rendeva dunque unica, preziosa, mai vista nei dintorni.
La mia prima bici era lì, lucida di sogno, come l’amore che sarebbe tornato vivo ad ogni giro, negli occhi verdi di una ragazzina bruna a cui chiedere quel bacio che ad uno scalatore in fuga non si nega mai, uno scalatore bambino e già col cambio, questo amore bene/maledetto che nel cuore dei ciclisti è ogni volta amore vero.
Mi chiamavo su quella bici, come fossero nomi di battaglia omerici, Pasquale Fornara, o Andrè Le Dissez, un regionale francese, chissà perchè, certo non ero ancora cresciuto abbastanza per interpretare scetticamente il ciclismo e la vita, come avrei fatto più in là, da biondo velocista olandese.
E raccontavo le corse a modo mio, giri su giri. Già, ultimo Fausto Coppi, o al massimo penultimo. E tra i peggiori, per la cronaca, nel fondo del ricordo, sempre un belga, Van Aerde, ed uno svizzero, Vaucher, spiegatemi voi il motivo.
E la mia prima bicicletta, bici col cambio da grande, era l’orgoglio del bambino ‘Paolo’, ogni volta che poi dalla campagna si andava a Carano, il pomeriggio del sabato, per prendere un gelato, sul Corso. Ed i ragazzi del paese, gli scugnizzi, mi seguivano per guardarla: per guardarla anche troppo.
Io avevo un po’ paura che volessero prendermela, e mi stringevo intimorito a mio padre, le volte che c’era, che non era rimasto invece a Napoli, per i suoi impegni all’Università. E lui bastava si voltasse indietro, per ammonirli severo, e loro dileguavano solo per quella occhiataccia.
Ed io scattavo allora, riscattavo felice ancora. Dietro la curva dello stradone, “attento all’autobus di Petteruti”, il traguardo volante. «Vaiii, Paolooo». La sua, e la mia voce ancora, su quella prima bicicletta. Fuori e dentro di me.
Gian Paolo Porreca, nato a Napoli nel gennaio ’50, segno del Capricorno, «come Karstens, Krol, Pantani e Shakespeare», chirurgo vascolare della Seconda Università di Napoli, è scrittore profondamente legato ai sentimenti ed al ciclismo.
Autore di A Gerben, con simpatia (Schettini, 1975), Una stagione fiamminga (Alfredo Guida Editore, ’93), Ti raccomando Raas (Limina, ’96), e Pantani ed io (Limina, ’99), è stato più volte premiato, tra gli altri riconoscimenti conseguiti, ai concorsi CONI per la letteratura sportiva. Giornalista pubblicista, scrive abitualmente per Il Mattino e tuttoBICI.
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