La morte è una fine, e a un giornale di sport, di vita andrebbe sempre in qualche modo considerata estranea. Incidentale. Lo scontro in gara, il dramma su una strada: l’automobilismo di Von Trips e Clark, il motociclismo di Saarinen, il ciclismo stesso, pensiamo ancora a Casartelli o a Santisteban...
Ma, si sa, l’attualità del ciclismo, e dello sport di oggi, ha sempre più frequentemente offerto in merito vicende tragiche legate invece alla sua evoluzione (o “devoluzione”) scientifica e sociale, tanto da diventarne nell’ultimo decennio un controcanto malinconicamente obbligatorio.
Vandenbroucke oggi, come Fois, ieri, come Pantani e Jimenez l’altro ieri.
Con quanto di successiva disamina inevitabile, e infruttuosa. Post-mortem. Autopsia, esami istopatologici, controlli tossicologici. Con le cadenze dovute, ma certamente ancora bibliche, proprie della scienza e della magistratura. E con gli equivoci e le letture di parte abituali. Fino alla naturale perdita di tensione e di attenzione sulla vicenda stessa. (Nello specifico caso di Frank Vandenbroucke, ad esempio, si è parlato come causa del decesso di una embolia polmonare e di una cardiomiopatia preesistente. Ma, in attesa dei riscontri tossicologici, e di fronte all’elemento documentale dei segni sul corpo di DUE iniezioni eseguite, quale ricostruzione di causa-effetto va data, in relazione al citato riscontro autoptico?). Tant'è. Ed è intollerabile che il ciclismo, uno sport coniugato per i suoi valori ideali al sole e alla primavera, percorra con una frequenza in tremendo aumento questo tunnel carico di polvere che non prevede luce finale.
Ma ci strugge diversamente, forse non è lecito dirlo, ma è quel che sentiamo vivamente dentro, l’assurdità di una altra scomparsa. La morte di Victor Van Schil, il gregario storico di Eddy Merckx, a 69 anni. Morte per suicidio, nel garage della sua abitazione. È presunzione, forse non è misericordioso, pensare a questa fine come ad una fine diversa dalle altre citate: di segno inverso. Morte non mediatica, di un uomo antico e non più giovane, non di un moderno ex-ragazzo. Forse è egoismo, ammettere una gerarchia pure nelle morti. Ma tant’è, sapere che Van Schil, un emblema di quei valori umani che il ciclismo ci è parso rappresentare, sia scomparso così, è un dolore immenso.
Van Schil, l’unico gregario, ma che diciamo gregario, diciamo pure amico, che abbia accompagnato Merckx in tutti e cinque i suoi Giri vinti. Van Schil, quel belga lì che nei primi anni alla Mercier era pure stato visto come il promettente regolarista che al ciclismo di quelle parti mancava, diciassettesimo al Tour ’62, e buon fondista, secondo alla Liegi ’66, la Liegi di Anquetil, e che poi, dal ’68 a seguire, spuntato l’astro Merckx, avrebbe riposto le sue ambizioni individuali e gli avrebbe serenamente offerto i suoi servigi, la sua spalla, la sua devozione. Dalla Faema alla Molteni, 1968-1976. Semplice, umile, leale, lui che pure una Freccia del Brabante, un Giro della Vallonia e una quarantina di successi li aveva incamerati in carriera. Con una immagine esemplare per tutte e per sempre. L’arrivo in tandem alla Liegi del ’69, maglia Faemino per essere precisi. Gli altri, a nove minuti. E Merckx che invita Van Schil a passare lui per primo, lui che ha tirato tanto, sul traguardo. E lui, Vic che declina l’invito: “no, vinci tu, che sei un grande, e vinci pure per noi”, o giù di lì. E poi l’abbraccio fra i due, lo abbiamo rivisto in un filmato, ancora in bici, commovente. Victor Van Schil, un ciclismo che sapeva di casa, di famiglia unica, forse di birra. Di sole o di neve, di stagioni. Non di vacanze al mare, di locali notturni, di entraineuse. Un ciclismo di pura bici.
E ci ritornavano, in questi giorni, in mente le parole che ci disse Eddy, in un’intervista, un paio di anni fa, quando gli chiedevamo dei suoi compagni. «E come sta Van Schil?». «Bien, bien, è sempre un duro, usciamo in bici ogni settimana. Sai, dagli una bici a Vic, ed è sempre uomo felice». Vorremmo tanto sapere chi un cattivo giorno gliel’ha tolta, quella BICI pura, a Vic.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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