Abbiamo ancora più vivo, nello specifico, al Giro, dopo il Vesuvio e la partenza da Napoli, a via Caracciolo, un confortante insegnamento che viene dal ciclismo. Non ci sono diversi, in questo sport, non ci sono stranieri. Forse è più naturale, pensiamo alle baruffe municipali fra Di Luca e Garzelli, un abruzzese contro il leader di una formazione di ragione sociale corregionale, pensare che possano resistere contenziosi parlando la stessa lunga, che non nella gamma straordinaria delle nazionalità e degli idiomi presenti al Giro.
Registriamo ancora, convinti, gli applausi a Menchov, a Seeldrayers, il ragazzino belga in maglia bianca, ad Armstrong, a Sokolov, ultimo, scortato dall’affetto sul Vesuvio... Gli applausi rivolti ai nostri, a Di Luca, a Basso, a Garzelli, a Pellizotti, a Petacchi, erano certo più assordanti: ma erano applausi UGUALI. C’è un pubblico, al Giro, da stadio, qualcuno ha voluto ancora ribadire sulla platea del Processo: ma mai da curva, andava specificato, questo pubblico che conosce l’eccesso di entusiasmo, talvolta, ma ignora i fischi e le invettive ed ha nel codice come cifra unica l’APPLAUSO.
Lo straniero non c’è più, forse chissà, c’era ai tempi di Merckx, ai tempi di Koblet nel ’50, chissà. Oggi, il ciclismo docet, non c’è più. Non c’è il diverso.
E lo sentivamo, ripetiamo, a Napoli, sul lungomare di via Caracciolo in una giornata pure non azzurra, per un capriccio del tempo, come luminosa certezza. E ci veniva, curiosamente, in mente la stagione - primi anni ’60 - in cui sullo stesso lungomare, davanti ad un festoso tripudio di gente, si disputavano le riunioni ciclistiche “tipo pista” del 1 maggio. Gli omnium, quel termine che non si usa più, come il latino, dedicati ai campioni della pista. Erano i tempi gloriosi di Maspes, Gaiardoni, De Bakker, Plattner, Derksen, di Roger Gaignard, che veniva dal circo, di Sacchi, di Faggin, del nostro giovane Damiano... E ci ritornava negli occhi, con dolcezza, quel rimbrotto severo di un signore con il cappello, a noi ragazzini di dieci anni che tifavamo Maspes. «Ragazzi, ma perché tifate Maspes, che è uno straniero, invece di Gaiardoni, che è un italiano?». Beato equivoco del cognome tronco, che rendeva Maspes, nella modesta accezione popolare, un ostrogoto... Il buon Gaiardoni, che proprio questo mese - il 29 giugno - compirà 70 anni, ne sorriderà ancora... La memoria preziosa viene, in questo caso, a conforto di uno spirito sportivo che nel ciclismo almeno, o soprattutto, è mutato. Ed in meglio. Non c’è più lo straniero.
Ed il Giro, andando via dalla Napoli borghese, per inciso, nella stessa giornata, ce ne avrebbe dato una lezione ancora più encomiabile: percorrendo per intero il litorale domizio, da Pozzuoli fino a Cellole. Un territorio difficile, dove l’oro del mare è diventato utopia, nel più selvaggio degrado urbanistico e sociale... La camorra, gli insediamenti degli extracomunitari, la droga, gli africani, una scia di sangue, le campagne abbandonate... Ebbene, la carovana del Giro si è inoltrata anche lì, fra due ali di folla senza soluzione di continuità e senza un fischio. Ad ogni quadrivio, con il traffico bloccato, nessun segnale di impazienza. Solo gente, tanta, gente locale, gente di colore, bambini, donne. E la missione civile, palpabile, di un Giro che idealmente vi lasciava un’àncora di metallo ancora più nobile, di valori umani sopiti che si riaccendevano inalienabili. Quel Giro, un evento sportivo che non conosce più stranieri o diversi, si elevava a Giro solidale. A messaggero di integrazione.
E ci lasciava l’immagine indelebile di quella coppia di ragazzi in bici - l’uno bianco, l’altro nero, cicli Caputo -, che si davano regolarmente il cambio. Da Pozzuoli fin sulla Domiziana. Dietro la vettura di “Fine Corsa”. Il ciclismo sarà per sempre amato a colori. Mai più, da oggi stesso, in bianco e nero.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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