Scripta manent
Non c'è più straniero

di Gian Paolo Porreca

Abbiamo ancora più vivo, nello specifico, al Giro, dopo il Ve­su­vio e la partenza da Napoli, a via Caracciolo, un con­for­tante insegnamento che vie­ne dal ciclismo. Non ci sono diversi, in questo sport, non ci sono stranieri. Forse è più naturale, pensiamo alle ba­ruffe municipali fra Di Luca e Garzelli, un abruzzese con­tro il leader di una for­ma­zione di ragione sociale cor­regionale, pensare che pos­sa­no resistere contenziosi par­lando la stessa lunga, che non nella gamma straor­di­na­ria delle nazionalità e degli idiomi presenti al Giro.
Registriamo ancora, convin­ti, gli applausi a Menchov, a Seeldrayers, il ragazzino bel­ga in maglia bianca, ad Arm­strong, a Sokolov, ultimo, scortato dall’affetto sul Ve­suvio... Gli applausi rivolti ai nostri, a Di Luca, a Basso, a Garzelli, a Pellizotti, a Pe­tac­chi, erano certo più as­sordanti: ma erano applausi UGUALI. C’è un pubblico, al Giro, da stadio, qualcuno ha voluto ancora ribadire sulla platea del Processo: ma mai da curva, andava spe­ci­ficato, questo pubblico che conosce l’eccesso di entu­sias­mo, talvolta, ma ignora i fischi e le invettive ed ha nel codice come cifra unica l’APPLAUSO.
Lo straniero non c’è più, forse chissà, c’era ai tempi di Merckx, ai tempi di Koblet nel ’50, chissà. Oggi, il ci­clismo docet, non c’è più. Non c’è il diverso.

E lo sentivamo, ri­pe­tia­mo, a Napoli, sul lun­gomare di via Ca­racciolo in una giornata pure non azzurra, per un ca­priccio del tempo, come luminosa certezza. E ci ve­niva, curiosamente, in mente la stagione - primi anni ’60 - in cui sullo stesso lun­go­mare, davanti ad un festoso tripudio di gente, si dispu­tavano le riunioni ciclistiche “tipo pista” del 1 maggio. Gli omnium, quel termine che non si usa più, come il latino, dedicati ai campioni della pista. Erano i tempi gloriosi di Maspes, Ga­iar­doni, De Bakker, Plattner, Derksen, di Roger Gaignard, che veniva dal circo, di Sac­chi, di Faggin, del nostro giovane Damiano... E ci ritornava negli occhi, con dolcezza, quel rimbrotto severo di un signore con il cappello, a noi ragazzini di dieci anni che tifavamo Maspes. «Ragazzi, ma per­ché tifate Maspes, che è uno straniero, invece di Gaiar­doni, che è un italiano?». Beato equivoco del cognome tronco, che rendeva Maspes, nella modesta accezione po­polare, un ostrogoto... Il buon Gaiardoni, che pro­prio questo mese - il 29 giugno - compirà 70 anni, ne sorriderà ancora... La me­mo­ria preziosa viene, in questo caso, a conforto di uno spi­rito sportivo che nel ci­cli­smo almeno, o soprat­tut­to, è mutato. Ed in meglio. Non c’è più lo straniero.

Ed il Giro, andando via dalla Napoli borghe­se, per inciso, nella stessa giornata, ce ne avrebbe dato una lezione an­cora più encomiabile: per­correndo per intero il litorale domizio, da Pozzuoli fino a Cellole. Un territorio diffi­ci­le, dove l’oro del mare è di­ventato utopia, nel più sel­vaggio degrado urbanistico e sociale... La camorra, gli insediamenti degli extraco­mu­ni­tari, la droga, gli afri­cani, una scia di sangue, le campagne abbandonate... Ebbene, la carovana del Gi­ro si è inoltrata anche lì, fra due ali di folla senza so­lu­zione di continuità e senza un fischio. Ad ogni qua­dri­vio, con il traffico bloccato, nessun segnale di impa­zien­za. Solo gente, tanta, gente locale, gente di colore, bam­bini, donne. E la missione civile, palpabile, di un Giro che idealmente vi lasciava un’àncora di metallo ancora più nobile, di valori umani sopiti che si riaccendevano inalienabili. Quel Giro, un evento sportivo che non conosce più stranieri o di­versi, si elevava a Giro so­lidale. A messaggero di integrazione.

E ci lasciava l’immagine in­delebile di quella coppia di ragazzi in bici - l’uno bianco, l’altro nero, cicli Caputo -, che si davano regolarmente il cambio. Da Pozzuoli fin sulla Domiziana. Dietro la vettura di “Fine Corsa”. Il ciclismo sarà per sempre amato a colori. Mai più, da oggi stesso, in bianco e nero.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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