di Pier Augusto Stagi
Ora che tutto è compiuto e con il mondo si è rivestito, forse quell’abito tanto agognato gli sta fin troppo stretto. È probabile che quel territorio che raccoglie 8 miliardi di persone disseminate in cinque continenti sia fin troppo piccino per questo immenso corridore che a Zurigo ha scritto una nuova pagina di sport. Ora che Tadej Pogacar ha disegnato sulla pelle l’arcobaleno che spetta ai più forti del mondo è probabile che quel territorio, quello spazio, quelle terre emerse siano fin troppo limitanti per spiegare la grandezza di un corridore che è abituato a tracimare ed esondare, come un dolce e rabbioso tsunami. Tutto è compiuto e mai come questa volta si respira un profondo senso di giustizia: chi meglio di lui poteva vestire la maglia di campione del mondo? Chi se non questo ragazzo 26enne di Komenda che vanta già 86 vittorie da professionista e un palmares da capogiro?
«Non so ancora che cosa ho fatto, non posso crederci che sia accaduto», ha detto il diretto interessato appena dopo il fenomenale trionfo, che si è fatta storia, leggenda, epopea.
Ha messo il Mondiale vicino a Giro d’Italia e Tour de France nella stessa annata come solo Eddy Merckx (1974) e Stephen Roche (1987). Ma lo sloveno, a differenza loro, ci può aggiungere la Liegi - come nessuno - e chissà, magari anche Il Lombardia del 12 ottobre prossimo.
«La corsa si è sviluppata molto presto e forse ho fatto una cosa stupida nello scappare da così lontano, ma davanti ho trovato Jan (l’altro sloveno Tratnik, ndr) e siamo andati. Lì ho preso morale, lui è una macchina. No, non l’avevo pianificato. È stata un’azione stupida, suicida. O forse non tanto, visto che ha funzionato».
E dire che giovedì sera, in occasione della presentazione della nuova Colnago, tre giorni prima della sfida iridata, Pogi era stato sfiorato da una follia ancora più grande, che però è restata una semplice boutade.
«Il modo migliore per promuoverla sarebbe partire al chilometro zero, ora ci penso...», ha detto con quel suo faccino da piccola peste.
Sarebbe stata follia ed esagerazione, ma seminare i diretti avversari quando al traguardo mancano 100 chilometri al traguardo non è da meno. Chi era già in fuga è rimasto senza parole. Pogi ha rilanciato fino a restare con il solo francese Sivakov (suo compagno di squadra alla Uae) e poi da solo, quando alla meta mancavano 51 km e mezzo: bisogna tornare al Vittorio Adorni 1968, vincitore a Imola dopo una cavalcata solitaria di 90 chilometri, per trovare una azione di questa portata. Anche se è giusto dire che Adorni fu un “under-dog”, Pogacar ha fatto quello che ha fatto da favorito assoluto, titolo che divideva con Remco Evenepoel, che è rimasto a guardare, come se a partire fosse un qualsiasi sconosciuto.
Per uno che ha voglia di dormire e non ama le sveglie, è singolare che suoni la carica a qualsiasi ora, in qualsiasi momento.
«Ci dovevamo svegliare presto, e a me non piace molto - ha spiegato in conferenza stampa -. Dunque, la prima sveglia l’ho spenta. Ne avevo altre due, ma alla fine ci ha pensato la mia ragazza Urska».
Quando Tadej parte, il resto del plotone sembra suonato. I soli che riescono a reagire sono l’americano Simmons e il nostro Andrea Bagioli: a loro il merito di averci provato. Una volta rimasto da solo, alle sue spalle hanno provato a rimediare all’errore, ma con quello davanti c’è poco da fare: gli errori si pagano. Evenepoel non è in giornata; Van der Poel fa quel che può; Healy e Skujins sono i migliori dietro il gigante; Hirschi fa, ma con quello che ha: poco. Nel finale c’è chi vede Tadej in difficoltà, in riserva. E lui a spiegare quel momento.
«Stavo gestendo, conoscevo i distacchi e non mi sono mai sentito in crisi». E ancora: «Da bimbo non sognavo questa maglia, mi sarebbe bastato essere alla partenza del Tour, o del Mondiale stesso. Ma da un paio d’anni era diventata un obiettivo, e ora è più di un sogno che si è avverato».
O’Connor è emerso da dietro, prendendosi l’argento a 34”, Van der Poel ha chiuso di bronzo a 58”, Evenepoel finisce quinto ed è il vero sconfitto di giornata. «Quando è partito abbiamo pensato che fosse un pazzo -la sincera ammissione di Van der Poel ed Evenepoel, gli ultimi due iridati -, che fosse troppo lontano. Ha avuto ragione».
Numeri: 86 vittorie in carriera, 23 solo quest’anno in 55 giorni di corsa, una vittoria ogni due corse. Sconfitte vere? Due: la prima, alla Milano-Sanremo: terzo. La seconda, al Gp Quebec, settimo.
Vince e stravince. Lo fa con naturale follia. Con attacchi a lunga gittata, come i grandi, più dei grandi, con imprese d’altri tempi che sono di questo tempo eterno e sublime. Sullo sterrato senese della Strade Bianche Pogi ha fatto festa due volte, nel 2022 e nel 2024. Due anni fa andò via a 50 chilometri dall’arrivo, nel tratto più duro di Monte Sante Marie, quest’anno (percorso allungato da 185 a 214 km) ha salutato la compagnia a 81 km da piazza del Campo.
La prima Liegi e i primi due Lombardia li ha vinti allo sprint. L’anno scorso al Lombardia e quest’anno in Belgio, due fughe solitarie, da 31 e 34,8 km. E vogliamo parlare dello strepitoso duello con Mathieu Van Der Poel al Giro delle Fiandre 2023? Tadej ha avuto la meglio tra Muri e pavé, sull’olandese volante che di Fiandre ne ha vinti 3, involandosi a 17 chilometri dalla conclusione sul Vecchio Kwaremont. E i Grandi Giri?
Vince il Tour al debutto, nel 2020. Quest’anno ha fatto poi quello che ha voluto, sia al Giro sia al Tour: 6+6, 39 giorni al comando su 42. E nella giornata con il doppio Monte Grappa, oltre ad attaccare si è fatto notare e applaudire per aver regalato la borraccia a un bimbo.
Da 50 anni il riferimento assoluto del ciclismo è il Merckx 1972, che vinse Sanremo, Liegi, Giro, Tour e Lombardia. Il Pogacar 2024 per ora risponde con Liegi, Giro, Tour e Mondiale. E se a tutto questo aggiungesse anche il Lombardia...