C’è un tema eterno e affascinante che negli ultimi tempi proprio il direttore Stagi ha riportato in auge con una bella intervista al piemme Spinosa, ora impegnato su altri fronti a Paola, ma famoso come grande accusatore di Michele Ferrari, discusso guru dei preparatori. Quale tema? Lo riassumerei in una frase, estratta dall’intervista: «Basta ipocrisie: i grandi campioni sono divi dello spettacolo, dunque devono essere liberi di fare ciò che vogliono. La lotta al doping va inasprita nelle categorie dilettantistiche e amatoriali». Appunto: doping libero agli altissimi livelli, perché tanto qui la lotta è persa, e poi perché comunque un divo dev’essere libero di gestirsi come vuole. La tesi non è per niente eccentrica o folkloristica. Ha una sua logica e una sua rispettabilità (tutte le idee motivate ne hanno). Sarebbe bello e interessante sapere che ne pensa la gente. Ma in attesa di un eventuale pronunciamento popolare, provo a dire come la penso io.
Premessa: è vero che la lotta al doping non vincerà mai. Chiedo: la legge ha mai eliminato il male, il delitto, il malaffare? Certo che no. Nell’amena cerchia dell’umanità, bene e male sono in eterno contraddittorio. Nel senso che c’è sempre chi ci prova e c’è sempre chi prova a non permettergli di provarci. Dunque, è stupido pensare che l’antidoping un giorno riesca davvero a eliminare il doping. L’antidoping - come tutte le leggi e tutte le polizie del mondo - può solo braccare il doping, inseguirlo, stanarlo, e al momento opportuno presentare il conto. È già molto, se riesce a fare questo.
Seconda premessa. Praticamente una domanda: da dove nasce l’idea che considera i grandi protagonisti dello spettacolo liberi di gestirsi come vogliono? Bisognerebbe parlarne un po’ di più e un po’ meglio. Ma per proseguire nel discorso è utile darla per scontata. Passi come buona: al grande artista non vanno eretti limiti e barriere. Faccia come vuole, purché produca l’arte che gli chiediamo.
Ricapitolando: l’antidoping non batterà mai il doping, i grandi campioni sono liberi di creare come meglio credono. Va bene. Ma allora: possono bastare queste due constatazioni per sbaraccare la complicata e farraginosa macchina da guerra messa in piedi dal 1998 in poi, con risultati alterni e con un ciclismo purtroppo ancora guardato con diffidenza?
Vengo alla risposta che mi sono dato io, personalissima e niente affatto risolutiva, dopo lunghi anni di penose frequentazioni ciclistiche. Date le premesse, la conclusione non può comunque che essere una sola: è meglio per tutti se il piemme Spinosa si concentra totalmente sui racket calabresi. Le sue idee sul doping libero, motivate e rispettabili, sono comunque da lasciare in fondo a un cassetto. Restano affascinanti, ma nella realtà diventano tremende. Per un motivo, soprattutto: aprono le porte a quello che qui, sbrigativamente, definirei il ciclismo dei kamikaze.
Che ciclismo sarebbe? Non voglio farla lunga con un trattato. Bastano poche parole. Più che altro, basta pensare alla storia e alla tradizione del ciclismo, anche se potremmo dire di tutto lo sport. Restando a noi: tutti sappiamo che cosa è successo in questi lunghi anni, tra retate e arresti, blitz e processi, famiglie rovinate e sponsor in fuga. Tutti quanti abbiamo visto quante vetrate sono venute giù, con danni ancora difficilmente quantificabili, e comunque ingenti. Eppure, nonostante tutta questa litania di scandali planetari, ogni mese c’è regolarmente qualcuno che ancora si fa colpire e affondare per uso di doping. In questo scenario, c’è tutto il senso della mia conclusione: gli uomini atleti continueranno a provarci. Figuriamoci quando eventualmente abolissimo per decreto la lotta al doping, con le sue regole, i suoi limiti, i suoi castighi. I grandi campioni liberi di gestirsi? Ma per favore. Qui c’è gente che per vincere una grande corsa è disposta a rovinarsi la salute per sempre. L’hanno fatto anche per corse piccole, figuriamoci. Senza controlli e senza pene, nessuno potrebbe più fermare i kamikaze della chimica, capaci di sacrificarsi per il bene della propria famiglia e dei propri discendenti. Vinco il Tour, divento miliardario, mi sistemo per la vita. E pazienza se questa vita sarà più breve: dopo di me, godranno mia moglie e i miei figli. Sono i ragionamenti che nel loro piccolo già fanno persino gregarioni e mezze figure. Immaginiamo come possono farsi strada nella testa di chi ha un grande giro o una superclassica a portata di mano. Droga pesante, guadagni pesanti. E il kamikaze va indomito a immolarsi. Perché ne vale la pena, perché la causa lo merita.
No, non mi sembra il caso. Doping libero un bel niente. Saranno lacunose, inique, sbalestrate: ma le regole servono. Scelgo il male minore. Quanto meno, si va avanti come adesso: sappiamo che il doping è imbattibile, sappiamo che ancora ci provano, ma sappiamo che chi ci casca è perduto. Se proprio vogliono doparsi, obblighiamoli a doparsi con ansia e paura. Paura del castigo e della pena, ovviamente, visto che paura dei danni alla salute non ne hanno. Ma lasciamogliela, quest’ansia. Sappiano i nostri acrobati della chimica che al minimo errore, alla minima distrazione, alla minima svista, lo sbalestrato antidoping è lì puntuale, sull’uscio di casa, con il suo pesante conto in mano. Le regole non eliminano il reato: i limiti di velocità non impediscono che il demente sfrecci a duecento orari, così come la galera non elimina il gusto di evadere le tasse in grande stile. Ma c’è un ma: le regole, limitate e derise che siano, costituiscono comunque l’ultimo appiglio - anche solo come consolazione - per chi cocciutamente crede nella lealtà. Ce ne sarà ancora qualcuno, o no?
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