Rapporti&Relazioni
Confiteor

di Giampaolo Ormezzano

Confessione che comincia: secondo un calcolo per difetto, forse già proposto anche su queste pagine, ho picchiato sui tasti, prima della macchina da scrivere poi del computer, per più di centociquanta milioni di volte, niente lasciando ai posteri, lo so, ma niente togliendo alla curiosità di chi mi faceva credito leggendomi e aspettando da me “qualcosa”, lo giuro. Ho passato i settanta e ancora adesso mi scopro in quasi perenne crisi di astinenza, nel senso che avrei tante cose da scrivere ma non posso, non mi concedono - giudiziosamente - tutti gli spazi che voglio. Professionalmente ho smesso di seguire in senso autenticamente fisico il ciclismo nel Giro d’Italia del 1999, con l’occaso traumatico, repente di Pantani, ma sto attaccato al suo mondo come alle mammelle della mia massima nutrice giornalistica, visto che proprio col ciclismo ho cominciato ed ho finito, e che grazie al ciclismo ho realizzato un primato italiano moralmente ben più superiore a quello mondiale, e anch’esso mio, di ventidue edizioni dei Giochi olimpici seguite da giornalista: nel senso che sono diventato direttore di un quotidiano sportivo, nel 1974 quando già il calcio imperava eccome e si pensava al Tour de France vinto da Gimondi nel 1965 come alla fine dell’impero delle due ruote, senza avere fatto una cronaca che è una di una partita di calcio di serie A (forse ultimamente qualcuno ha eguagliato questo record).

Confessione che continua: con questo retroterra (background, in italiese) mi trovo comunque in leggera difficoltà ogni volta che devo metter giù questa rubrica. E la difficoltà cresce psicologicamente ogni volta che constato, sfogliando questa stessa pubblicazione, quali e quanti argomenti giornalistici il ciclismo offra e comunque possano essere scovati o addirittura creati.
Non so quanto di questa confessione possa importare ai miei eventuali lettori, comunque per metterla nero su bianco approfitto della grande democratica gentilezza del direttore e della comprensione di un po’ tutti quelli che mi danno fiducia. So che forse una scaglia, una particina, una molecola di essa potrebbe interessare la federazione del mio amico Renato Di Rocco, che io temevo andasse, da funzionario esimio, in qualche altro sport, e che invece è rimasto, addirittura da presidente, dalle nostre e sue parti. Nel senso che vorrei che la federazione facesse accadere intorno al ciclismo cose sempre più belle per il ciclismo stesso, nonché professionalmente per me. Attenzione: accadere, non avvenire. Avvengono le cose come da programma, da copione, accadono le cose per fantasia, per genialità, per colpi d’ala.

Fare accadere qualcosa intorno al ciclismo, a pro del ciclismo, significa ad esempio riuscire a proporlo in televisione: purtroppo è questo il passaggio, a nord-ovest come a sud-est, a sud-ovest come a nord-est, da forzare per arrivare alla gente, quella che ha sostituito il popolo - ben altra cosa - come voce di Dio. Non è possibile che sul teleschermo si succedano tante, troppe trasmissioni di fitness senza che si veda una bicicletta che è una, fosse anche quella per lo spin più demenziale e ridolinesco. Non è possibile che si parli di alimentazione e di diete e di chili da perdere senza che almeno qualche volta il ciclismo non venga tirato in ballo come rimedio fisico validissimo, come sport ideale per mangiare a sazietà e però anche dimagrire, magari intanto gustando un bel panorama. Non è possibile che si parli di costo spaventoso della benzina, di problemi terrificanti del traffico, senza che si ricordi che la bicicletta è forse la soluzione primaria. Non è possibile che si lasci che un politico, magari anche il primo ministro, esalti la quantità di automobili circolanti in Italia come prova di benessere ergo di felicità, quando l’automobile sta diventando il massimo dei mali da progresso, il disgregatore “pessimale” del risparmio, del sistema nervoso, intanto che cresce sempre, patente a punti o no, come strumento di morte.

Bisogna fare qualcosa. Alla rinfusa: mandare delle biciclette all’isola dei famosi, o in altri posti degli shows di massima finzione, cioè quelli della cosiddetta reality, e farle usare da quei disgraziati morti di fama, anche per la più cretina delle loro competizioni. Mettere su una bicicletta Fiorello, funziona sempre e lui è pure intelligente. Andare in bicicletta alla trasmissione meteorologica di Fabio Fazio, dove comunque splende sempre il sole dell’intelligenza libera, e parlare di ciclismo praticato anche sotto la pioggia. Rinunciare, massì, a certe telecronache di gare ciclistiche di cui importa poco e che fra l’altro offrono quasi sempre desolanti spettacoli di non folla, e sostituirle con filmati di vacanze in bicicletta, di scoperte permesse dalla bicicletta. Corrompere qualcuno e riuscire a far fare una fiction sulla bicicletta (non su Coppi, non su Bartali, sulla bicicletta): e pazienza se si mostrano troppe ragazze scosciate, tanto accade anche nei teledibattiti sullo Spirito Santo.

La televisione è un mostro, ma se lo si imbriglia trascina da solo pesi per i quali non basterebbero mille carri di buoi. Tra Torino 2006 dei Giochi olimpici invernali e Germania 2006 del Mondiale di calcio gli spazi di telemanovra sono, in un futuro prossimo, assai ridotti: bisognerebbe inventarsi qualche scorreria, spedire sulle nevi e sul ghiaccio qualche ciclista folle, farlo irrompere in uno stadio calcistico tedesco. Il ciclismo che esiste, che “è”, che ha una valenza storica fortissima, ha il diritto-dovere di non vivacchiare con piccoli spasmi dentro la carità di un po’ di televisione. Deve prendere i suoi spazi, con tutti i mezzi. Una volta, ad un convegno (era a Firenze, ricordiamo) auspicammo per il ciclismo un morto importante, l’ideale un ministro travolto da un’auto mentre si faceva una pedalatina, per avere le piste ciclabili. L’emergenza da allora è cresciuta, adesso è sempre più difficile ottenere spazio. Bisogna essere corsari (meglio sarebbe pirati, ma noi del ciclismo siamo troppo perbene).
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