Pozzovivo e i baby ritiri, gli opposti estremismi
di Cristiano Gatti
Stranissimo, l’inverno che andiamo a chiudere. Almeno per me, restano eclatanti le parole e gli atteggiamenti di tre atleti molto diversi e lontani tra loro, ma accomunati dal filo rosso di un malessere profondo. Esplicito, con nomi e cognomi. Da una parte l’eterno e immarcescibile Pozzovivo, che a 40 anni abbondanti proprio non si sente pronto a smettere, sentendosi invece prontissimo per gareggiare ancora ad alto livello. Settimane, mesi a cercarsi un contratto, allenamenti in solitudine, lo stress - e anche un po’ l’umiliazione - di non ricevere la giusta chiamata: quanto basta per un chiunque dire sapete che c’è, grazie tante e saluti a casa, mollo tutto e vado a inventarmi la seconda vita. Niente, Pozzovivo ha ancora testa e cuore da corridore, per tutto l’inverno ha battuto lo stesso chiodo: cerco una squadra, mi sento integro, tra l’altro non è detto neppure che con il contratto in mano sarebbe l’ultima stagione. Mai dire mai, ho tutta una vita davanti...
Agli antipodi, due ragazzi giovanissimi e incredibili che finalmente arrivano al professionismo, realizzando nel concreto il sogno di sempre, loro sì una vita davanti in tutto e per tutto, ma proprio nel momento della massima soddisfazione si voltano di spalle e se ne vanno verso un altro domani. Senza bicicletta. Salutando, scrivono parole bellissime, tanto per dire quanto sono macerati, quanto ci hanno pensato, altro che ragazzini viziati con la testa vuota dei nostri sabati sera. Mattia Petrucci, classe 2000, accasato Bardiani, spiega: «Le motivazioni sono tante, ma di base ho perso la felicità. In questi ultimi anni ho continuato, forse perché ero troppo dentro per uscirne, ma ora non sono più in grado di vivere tutto questo, sul più bello, raggiunto il professionismo… Non ho trovato il mondo che speravo, e tutti i rischi e le difficoltà non generano felicità, ma soltanto altri problemi. Forse avrei dovuto accorgermene prima, ma è ora che posso cambiare la mia vita. Mi dispiace deludere delle persone, ma si vive una volta sola. E io ho capito cosa voglio dalla mia vita».
A ruota, in questa storica fuga, Gabriele Benedetti, anche lui classe 2000, il professionismo assaggiato nel 2022 con sei corse appena. La parole sue: «Ho passato mesi difficili, in cui non ascoltavo mai ciò che diceva la mia testa, in cui la paura di deludere gli altri era maggiore di tutto di quello che in realtà avrei voluto fare. Ma ad oggi voglio scegliere io e la mia scelta è quella di cambiare vita. Perché ho capito che non è più il mio sogno”.
Parlano di sogni e di vita. Tutti e tre, gli opposti estremismi, l’anziano che proprio non ce la fa a scendere dalla bici e i due millenials che sono già stufi marci, nauseati e sazi. Naturalmente lascio ai tecnici allegare le motivazioni sul perché un anziano che viene da un’altra era e da altri metodi non avverta i segni dell’indigestione, mentre i due ragazzini cresciuti con i nuovi metodi tra le giovanili si presentino al professionismo già saturi e schifati, vinti da un pessimismo e da un’apatia letali. A questo proposito, sul tema di come noi alleviamo i giovani ciclisti, segnalo le parole di Davide Cassani, tra tutte quelle lette e sentite sicuramente le più tecnicamente sensate e le più umanamente profonde.
Ma chi ha ragione, il vecchio che non ce la fa a smettere o i ragazzini che scappano prima ancora di cominciare? Ne ho lette veramente di tutti i colori. Come sempre tutti dimostriamo di essere bravissimi a vivere la vita degli altri, a insegnare loro come si fa, anche se magari non siamo così fenomenali a vivere la nostra. Per quanto mi riguarda, provo solo rispetto sincero per tutti e tre. Tutti e tre hanno ragione, nessuno ha torto e nessuno sbaglia, perché tutti e tre fanno la cosa migliore per sé. Che non è continuare o smettere, ma fare quello che ci si sente, guardarsi allo specchio e non mentirsi, inseguire anche con tanta sofferenza la cosa giusta. Non esiste il giusto assoluto e universale, lo stesso per tutti: il giusto è personale, ciascuno ha il suo. La cosa fondamentale è non raccontarsela, non fare i furbi con se stessi, non imboccare scorciatoie e scappatoie. Certo si fa prima dicendo che Pozzovivo non accetta la vecchiaia, che non riesce ad alzare la testa, che sfocia nel patetico, e dei due ragazzini potremmo dire che confermano la pochezza della loro generazione, incapace di sopportare le fatiche, le musate, il dolore, i fallimenti (e pazienza se così comunque li abbiamo fatti noi: i loro nonni usciti dalla guerra che non volevano più infliggere agli eredi le loro sofferenze, i loro padri - noi - che la fatica vorrebbero sbianchettarla dall’esistenza, inventandosi di tutto per arrivare alla settimana cortissima di 4 giorni e alla pensione non dopo i 60 anni, oltre che menare i prof se il figlio non va bene a scuola).
La verità è che solo loro, come tutti, sanno dove sta la vera verità. Solo loro sanno se la propria scelta di vita è una coraggiosa presa di consapevolezza o un'inconfessabile menzogna. Ma chi cerca la propria strada, facendosi dolorosamente largo nella nebbia dei giorni, va solo rispettato e incoraggiato. L’unica cosa che conti è trovarla, quella strada.