Paralimpiadi Tokyo 2020, Valentini e un'Italia d'oro

di Giulia De Maio

«Ma che disabilità ha?». A To­kyo2020 è la domanda che abbiamo sentito formulare più spesso. Alle Pa­ralimpiadi la disabilità non si vede. Esiste, ma una gara dopo l’altra dobbiamo sforzarci per individuarla e raccontarla. Ammirando le gesta di atleti e atlete incredibili rischiamo di dimenticarci delle loro difficoltà quotidiane, degli arti mancanti, delle carrozzine, dei limiti reali con cui devono scontrarsi ogni santo giorno nelle vita lontana dai riflettori. I Giochi Paralimpici ci permettono di immaginare un mondo in cui la disabilità c’è ma non si vede perché è inclusa e supportata e voluta all’interno della so­cietà, non nascosta e reietta e ai suoi margini come ancora troppo spesso accade. Ce lo ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che nei giorni scorsi ha incontrato tutti i medagliati di Tokyo2020, tra cui spiccano i campioni del paraciclismo che in Giappone hanno conquistato sette me­daglie: 1 oro, 5 argenti e 1 bronzo. I nu­meri parlano chiaro: l’Italia del ciclismo occupa il quinto posto per numero di metalli conquistati in questi Giochi, confermandosi come riserva di medaglie per il movimento paralimpico italiano, proiettandosi al secondo posto del ranking dietro al nuoto. Sette podi per undici atleti è il riassunto della pro­va di forza degli azzurri, partiti subito forte con 4 argenti nella cronometro (con Luca Mazzone, Francesca Por­cellato, Fabrizio Cornegliani e Giorgio Farroni), su un percorso duro, che ha messo in difficoltà tutti. Con le prove in linea poi sono arrivate altre due me­daglie (argento da Mazzone e bronzo da Katia Aere), fino a quella d’oro del Team Relay, la staffetta che ha messo in mostra lo spirito di squadra di una Nazionale che ha corso anche nel se­gno del “capitano” Alex Zanardi. Di questa bellissima pagina dello sport azzurro abbiamo parlato con il Com­missario Tecnico dell’Italia del paraciclismo Mario Valentini e con i suoi ragazzi d’oro.
Soddisfatto del bilancio?
«Sì, non abbiamo conquistato lo stesso numero di medaglie di Rio2016 ma la trasferta è stata assolutamente positiva. Abbiamo fatto vedere ancora una volta di cosa siamo capaci. Sono orgoglioso di ognuno dei miei ragazzi, che hanno mostrato lo spessore di questo gruppo, umano ancor prima che agonistico. Siamo uniti, siamo umili, siamo vincenti: questo è quello che abbiamo dimostrato prova dopo prova. In termini di risultati mi aspettavo qualcosina in più, ma è normale che anche le altre nazionali si potenzino. Mi è rimasta qui la medaglia d’oro di Mazzone, per­sa per 16 centesimi. Ha fatto una scelta sulle ruote su cui non ero d’accordo, poi mi ha dato ragione, erano pericolose. Far­rone nulla ha potuto contro un cinese fortissimo. Nella gara di Ano­bi­le i big si sono guardati troppo e il pri­mo ha preso il largo, in volata siamo fi­niti quarti, ambivamo al podio. Por­cel­lato si è confermata e poi abbiamo vin­to la gara più bella, quella che premia il gruppo. Un successo che ha dato un significato diverso ai risultati precedenti e ci ha finalmente fatti esplodere di gio­ia. Ce lo meritiamo, è la giusta ri­compensa per questi 5 anni di instancabile lavoro. Colgo l’occasione per ringraziare i tanti che ci hanno inviato messaggi di complimenti, siamo stati sommersi d’affetto».
Che ricordo ha portato a casa da Tokyo?
«Quello di un grande popolo. A Tokyo nel ’90, con Brugna mio figlio Mauro, che purtroppo ora non c’è più, vinse il titolo mondiale dietro motori. Da allora il Giappone è cambiato ma ho ritrovato il grande rispetto che caratterizza questo Paese, una cultura che ammiro molto. Mi hanno colpito i volontari, di­sponibilissimi, un inchino dietro l’altro. Non era obbligatorio ma tutti in­dos­savano le mascherine, anche all’aperto, per tutelare gli altri. Mio figlio ripeteva che “Tutte le gare sono belle, ma le Olimpiadi non hanno eguali”. È proprio vero. Seguendole la gente si ap­passiona. Prima di partire siamo passati al cimitero per salutarlo, al ri­torno avrei voluto andare a trovare Alex, ma nemmeno i parenti possono fargli visita. In gara Diego Colombari lo ha sostituito degnamente, Zanardi ciclisticamente lo abbiamo perso, ma la sua presenza in squadra c’è sempre. Mancano i suoi modi allegri, ai raduni con lui era sempre una festa, raccontava barzellette e aneddoti, e poi passava ore con le mani sulla handbike. Il suo incidente, dopo la perdita di mio figlio, con cui si sentiva quotidianamente, è stata una dura botta da assorbire ma la vita deve andare avanti».
Ora che la fiaccola olimpica si è spenta, è importante non abbassare i riflettori su questa fetta di sport sempre più rilevante.
«Il Comitato Italiano Paralimpico (CIP) con il presidente Luca Pancalli e la Federazione Ciclistica Italiana (FCI) con Cordiano Dagnoni, che tiene talmente tanto al nostro movimento che si è tenuto per sé la delega del paralimpico, non ci hanno fatto mancare nulla. Tutte le nostre richieste sono state esaudite, la visibilità - anche grazie a quanto fatto da Zanardi negli anni - non ci manca, come per altre discipline è normale che i Giochi rappresentino l’occasione più importante a livello di immagine. In 20 anni abbiamo spiccato un grande salto e continueremo a lottare per crescere sempre di più».
A Parigi2024 mancano solo 3 anni.
«Lavoreremo con le società per trovare altri ragazzi e ragazze che possano emer­gere in ambito internazionale. Ba­stano piccole menomazioni per essere inseriti in certe categorie, il reclutamento tramite i team che hanno il termometro sui loro tesserati sarà fondamentale per ringiovanire il gruppo. Qualcuno dirà che per ringiovanire il settore bisognerebbe iniziare cambiando il CT, ma io miro a battere il record di Alfredo Martini, grande maestro in ammiraglia sino a 83 anni. Io fino a 84 non alzo bandiera bianca (ride, ndr). Fi­nora ho vinto 100 mondiali e 13 me­daglie d’oro olimpiche, ma non mi ac­contento. Organizzeremo un primo ra­duno all’inizio dell’anno proprio rivolto ai giovani, poi continueremo a prepararci in vista della Coppa del mondo e del mondiale in Canada».
 
Il terzetto d’oro
La gioia più grande dei Giochi Pa­ralimpici di Tokyo2020 ce l’hanno regalata tre ragazzi d’oro che sul circuito del Fuji Speedway sono riusciti a conquistare la medaglia più ambita nel team relay.
Paolo Cecchetto 54 anni di Le­gna­no (Milano), oro in linea nella categoria H3 a Rio2016, è il veterano della nostra staffetta. A 22 anni, in seguito a un incidente motociclistico, perse l’uso delle gambe diventando paraplegico. Per 12 anni pratica atletica leggera, ma alla fine degli anni Novanta scopre il pa­raciclismo, si guadagna la maglia az­zurra e da allora inanella un successo dietro l’altro. 

«A Londra2012 fu una disfatta, vincere a Rio è stata una scommessa, questa vol­ta è stato il massimo perché il trion­fo è merito del gioco di squadra. Dopo la grande felicità provata in Brasile pensavo di smettere, invece mi sono rimesso a pedalare, ho vinto il mondiale a crono in Sudafrica e in Olan­da, quest’anno a Cascais in Por­togallo sono riuscito a concludere primo sia nella crono individuale che nella staffetta, nella quale abbiamo avuto la conferma di avere un terzetto valido. Alla rassegna iridata mancavano Francia e America, le nazionali più temibili per i cinque cerchi, il risultato non era scontato, ma ci abbiamo creduto e siamo contenti di aver centrato l’obiettivo do­po tanto allenamento. La medaglia d’oro olimpica è la gioia più bella che possa vivere un atleta, condividerla con i compagni è l’apoteosi» racconta Pao­lo che ha scoperto l’handbike a una ga­ra di atletica.
«Alla maratona di Francoforte vidi questa bici strana, mi incuriosì il fatto che si pedalasse con le braccia, così tornato a casa mi informai e ne comprai una. Iniziai tanto per provare, poi più seriamente, con un allenatore. Non sia­mo retribuiti come professionisti, ma ci alleniamo come tali. Per raggiungere certi risultati ti devi dedicare ap­pieno, non puoi avere svaghi, anche nel paralimpico non ci si inventa nulla» precisa.
L’oro di Rio lo dedicò al padre che era stato poco bene e purtroppo è mancato l’anno scorso, quello di Tokyo è per la moglie.
«La definisco la medaglia della resilienza, anche nei periodi più difficili Laura mi ha sempre supportato e sostenuto. “Paolo vai al ritiro, non farti problemi, ai ragazzi ci penso io” e così si divideva in quattro per stare dietro agli impegni di Noah (20 anni), Rebecca (23) e Mattia (17)». Il loro papà non è più ragazzino e per continuare dice di aver bisogno di nuovi stimoli.
«Spero di invogliare qualche giovane a seguire le mie orme, vorrei vedere qualcuno dietro di me, nella mia categoria» confida, prima di lasciarci con una riflessione.
«Grazie alla mia carriera sportiva ho girato il mon­do in lungo e in largo. Più che di sensibilità nei con­fronti del­la di­sabilità, preferisco parlare de­gli ostacoli reali che una persona nella mia situazione si trova ad af­frontare ogni giorno. In Italia ci sono già delle leg­gi buone in vigore che van­no rispettate, direi che lo sono al 70%, quel 30% che se ne frega fa la differenza. Molte strutture sia pubbliche che private ancora non sono accessibili. I servizi di trasporto non sono all’altezza del Giap­pone, do­ve i mezzi sono tutti at­trezzati per le carozzine, e nemmeno di New York, dove 20 anni fa mi sorpresi di poter salire su tutti i pullman senza chissà quale cinema. A livello di barriere architettoniche, an­che se abbiamo città storiche spesso per loro natura poco accessibili, si può decisamente migliorare».
Luca Mazzone 50 anni, barese di Terlizzi. Nel 1990, durante un tuffo a Giovinazzo, urta contro uno scoglio, subendo una lesione midollare. È co­stretto alla sedia a rotelle, ma avendo trascorsi in diversi sport (body building, pugilato, calcio, ping pong), sceglie ben presto di dedicarsi al nuoto pa­ralimpico. In questo sport difende i colori azzurri a Sydney2000, dove si mette al collo due medaglie d’argento nella categoria S4, ad Atene2004 e Pe­chino2008. Non guadagna, anzi ci ri­mette, e visto che è tempo di mettere su famiglia cerca altro. Grazie alla bici, scoperta nel 2011, vive una seconda giovinezza che a Rio2016 gli regala due ori e un argento, e a Tokyo...
«Ho perso per pochi centesimi la cronometro, ma ho imparato che il destino come toglie dà e infatti pochi giorni dopo è arrivato l’oro nel team relay in cui, mancando tra le nostre fila Za­nardi, era più quotata la Francia, ma l’errore di uno dei nostri avversari ci ha consegnato il metallo più prezioso. So­no contento per me e i miei amici» racconta Luca, che in gara ha usato le ruo­te di Alex.

«Il successo è frutto di tantissimi sacrifici, forse è banale dirlo per un atleta, ma per un paraciclista lo è ancora di più. Dobbiamo sopperire a stress e fatiche doppie, salire e scendere dall’handbike, starci sdraiato per ore, ri­schiando che in strada non ti vedano, soffrendo per il caldo e per il freddo (per chi come me ha una lesione midollare alta cervicale, la spasticità correlata alla tergolegomentazione è un problema con cui bisogna sempre confrontarsi). Se ci soffermassimo al ritorno economico non ne varrebbe la pena. Io sono l’allenatore di me stesso, il nutrizionista di me stesso, quasi il meccanico di me stesso. Quest’oro rappresenta il premio degli sforzi profusi. Quando uno vince tanto sembra tutto facile, ma per salire sul podio bisogna sopportare tanta fatica. Mi fa piacere che in tv questa volta si sia vista» sottolinea il vincitore di 18 titoli mondiali.
Luca è l’ultimo di 5 figli, quello che è rimasto più a lungo con la mamma prima di sposarsi, tornato da Tokyo la prima persona che voleva abbracciare era proprio lei. Giu­seppina aveva 92 anni e una memoria ormai ballerina, ma pochi giorni prima di lasciarlo ha ascoltato il racconto di quel figlio di cui è sempre stata la pri­ma tifosa.
«In aeroporto sono stato accolto da mia moglie Mara e dal nostro Joseph, che compirà 12 anni questo mese ed è entusiasta di avere un papà stimato dai compagni di classe, a cui gli amici chiedono l’autografo. In questi giorni ha sentito parlare delle medaglie che vinsi a Sydney e mi ha chiesto di mo­strar­gliele. Ce le ho esposte in palestra, in una vetrinetta, impolverata. Altri ragazzi possono scoprire questo mon­do solo attraverso la tv».
E ancora: «Mia moglie preferiva il nuo­to perchè ero più al sicuro in una vasca che per strada, ma per l’handbike sono più portato e mi diverto decisamente di più. Mettendo insieme la meticolosità del nuotatore e gli insegnamenti di Podestà e Zanardi abbiamo creato un mostro (ride, ndr). I nuotatori sono i più “esauriti” perché passano le ore facendo avanti e indietro fissando una riga nera, ma i ciclisti li seguono a ruota in quanto a dedizione e fatica. Il ciclismo però è più romantico, ti porta a scoprire il mondo. Quan­do mi alleno a Campo Felice in Abruz­zo ammiro le montagne, i panorami e mi sembra di essere in Paradiso».
Senza sport non potrebbe vivere.
«Do il massimo ogni allenamento, faccio ciò che il fisico mi permette di fare, mi riposo, mangio bene, ma senza esasperazioni. Quando praticavo nuoto mi sentivo anziano, la bici mi ha dato una seconda giovinezza. Ora peso 66 kg e mi sento un ragazzino, il nuoto alla lunga è noioso, ti stanca, a livello mentale è devastante, della bici invece non posso fare a meno, anche solo per fare una passeggiata e godermi una bella giornata di sole. Dopo l’incidente ho cercato di capire cosa potevo fare, nella Murgia non c’erano strutture adeguate, al nuoto mi sono approcciato tre anni e mezzo dopo, quando hanno aperto un impianto natatorio vicino al mio paese. Durante la riabilitazione a Marsiglia ho passato tanto tempo in piscina per sottopormi alla idrokinesiterapia, che ri­lassando le gambe mi faceva stare be­ne, così tornato a casa mi sono detto: provo a fare qualche nuotata, mi sono iscritto a un corso, con persone normodotate, non c’era alternativa. Ho sbattuto la faccia contro il muro: non c’era modo di tenere le gambe a galla. Lì ho capito che dovevo osare e ho avuto la fortuna di trovare un istruttore che mi ha consigliato di usare le pinne da nuotatore almeno per acquisire le tecniche di base, poi abbiamo studiato una posizione con la testa più bassa per riuscire a nuotare. Bisogna osare, per non precludersi nulla».
Diego Colombari 39 anni di To­rino, è il più giovane del terzetto. All’età di 26 anni un grave incidente motociclistico gli costa, tra vari interventi, l’amputazione dell’arto inferiore sinistro. In seguito alla riabilitazione si avvicina al paraciclismo, associandosi alla polisportiva P.A.S.S.O. di Cuneo. A Tokyo ha sostituito più che degnamente Alex Zanardi, oltre ad aver raccolto un ottimo quarto posto nella crono, alla sua prima esperienza paralimpica.
«Delle tre gare a cui ho partecipato, la staffetta era quella in cui eravamo più convinti di poter tornare a casa con una medaglia al collo, ci siamo allenati tanto, siamo stati più volte in ritiro in­sieme per affinare al meglio i meccanismi. Qualsiasi medaglia sarebbe andata bene, è arrivata la più bella, quella che regala la massima soddisfazione a tutti coloro che mi hanno permesso di concretizzare questo sogno. Devo ringraziare i miei cari e gli sponsor che mi sono stati a fianco in questi anni, nel percorso fino alle Paralimpiadi. Nel mio su­do­re ci sono i sacrifici di tutti. Ho pre­so il posto di Alex senza caricarmi di troppe pressioni, mi ripetevo che ero lì per difendere la maglia azzurra, come tutti gli altri convocati. Partendo per ultimo, chiaramente in caso di volata era tutto sulle mie spalle, ma una volta abbassata la visiera del casco sono riuscito a rimanere freddo e concentrato» racconta Diego, a cui il successo alle Paralimpiadi non ha cambiato la vita.
«Mi sono fermato giusto una settimana per recuperare il tempo perso con mio figlio Leandro, che compirà 6 anni il 12 ottobre, che la settimana successiva al mio ritorno dal Giappone avrebbe iniziato la scuola. Mi sono dedicato a lui, poi sono tornato ad allenarmi, con me­no intensità perché la stagione ormai è finita ma con la stessa voglia. Per me questa medaglia è un punto di partenza non di arrivo».
Con la testa è già a Parigi2024.
«Il giorno dopo la vittoria ero al telefono con il costruttore della bici per valutare cosa modificare e migliorare del mezzo. In vista dei prossimi Giochi sia io che lui dovremo essere performanti. Mio figlio mi dà una spinta importante, mi chiede una medaglia a ogni trasferta, non si rende conto del livello delle competizioni a cui partecipo, e ogni volta mi lascia un adesivo portafortuna che mette sulla sua e sulla mia bici. Al mondiale ha corso con noi Spiderman, questa volta avevo con me i Minions».
Per la cronaca, da quando padre e fi­glio hanno iniziato questo rito, Diego non ha mai fallito l’obiettivo.
E pensare che l’handbike sembrava giusto una soluzione per fare un giro in bici con la moglie Giulia senza troppi rischi, nel tempo libero dal lavoro che portava avanti in un’azienda dolciaria. Professione che ha lasciato nel 2014 per investire su se stesso e quello sport che da valvola di sfogo è diventato una passione a cui è impossibile rinunciare.
A un ragazzo che si trova a vivere un imprevisto che stravolge la vita, come è accaduto a lui, consiglia: «Pro­va a fare di tutto senza pensare che ci sia un li­mite. Quando lo raggiungerai devi es­serne consapevole e accettarlo. So­gna­re è lecito e impegnandoti magari un giorno quello che desideri si avvererà. Come è successo a me, che a Tokyo ho vinto una medaglia e a Parigi voglio vincerne due».
Alla sua prima Paralimpiade è stato protagonista di un incontro speciale, uno di quelli che davvero non ti aspetti soprattutto per la storia che c’è dietro: ha ritrovato la fisioterapista che l’aveva seguito nella riabilitazione all’Ospedale Mauriziano di Torino.
«Francesca Fossato, a distanza di anni dal mio, ha avuto un incidente in moto e ha perso una gamba. A Tokyo era an­che lei al debutto, nel sitting volley. Avevo seguito la sua storia a distanza, speravo di vederla, ma noi non eravamo al villaggio olimpico e sembrava impossibile riuscire a incrociarci. L’ul­timo giorno, proprio a poche ore dalla ripartenza, invece siamo riusciti ad ab­bracciarci. In quel momento ho pensato a cosa aveva potuto vivere lei, che da fisioterapista si è ritrovata pa­ziente, con in più la consapevolezza di ciò che la attendeva, derivante dalla sua stessa specializzazione. Sono felice di aver condiviso con lei questa esperienza olimpica».

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