Abbiamo una immagine intensa, e personale, che non va via dalla mente, più ancora che non dall’anima, ad apertura della stagione agonistica 2005. Una sensazione da rendere però pubblica: e non certo a caso.
È il raduno sereno, atmosfera di grande civiltà, disponibilità estrema verso l’interlocutore, della Lampre-Caffita a Terracina, Hotel Fiordaliso, quello storico di Pantani, a buona memoria. E lì, tra Saronni e Martinelli, Vicino e Corti, Cunego e Simoni, ecco il doveroso incontro di lavoro con i tre ciclisti napoletani della squadra: Commesso, Figueras, Scotto d’Abusco. Due campioni dispersi, ed un virgulto acerbo. Ebbene lì l’intervista rituale a quei ragazzi del nostro Sud che puntualmente per accedere al ciclismo maggiore, e passare semmai professionisti, devono diventare pendolari e poi inevitabilmente accettare un nuovo habitat - via da casa -, d’improvviso acquistava un altro respiro, un’altra filosofia. O una chiave di lettura, se vogliamo, in più.
Ci colpiva infatti, come una folgorazione, il braccialetto giallo «Livestrong», l’icona di Lance Armstrong, devoluta nella lotta al cancro, al polso di Commesso.
Ci colpiva, anche perché in fondo vi eravamo impreparati, il rilevare che proprio Salvatore Commesso, un napoletano, uno vicino a noi una volta in più, uno tra l’altro che ha pagato il dolore discreto di un successo che declina, fosse l’unico degli atleti del team intero ad indossarlo.
«Ne ho acquistati una ventina, quando ho corso in Georgia in estate, e li ho regalati ad amici e parenti che condividevano le mie stesse idee». Già, le idee chiare di chi prima ancora di essere un ciclista professionista si riconosce parte attiva, pur nel suo infinitesimo atomo, di una umanità intera che ha bisogno di aiuto, e non per intenzioni platoniche, ma con fondi concreti, contro il cancro. Quel Commesso lì, a cui avevamo - forse con dubbio gusto - appena rimproverato un suo malinconico ritiro, in solitudine, nel Giro della Campania 2001.
E che ci sembrava per incanto ritornato, a pieno diritto, con quel braccialetto giallo testimone di una solidarietà imparziale, campione d’Italia. Un titolo meno effimero, fosse solo per la sensibilità dimostrata, di quello guadagnato nel ’99 e nel 2002.
E non solo, allora, per Commesso, naturalizzato lombardo. E non solo per Figueras, ormai di stanza in Romagna. O per Scotto d’Abusco, il ragazzino che deve tradire Ischia per la Toscana. Non solo per i tre campani della Lampre-Caffita, ma per i tanti altri atleti del Sud che danno corpo - e non solo colore - al movimento professionistico nazionale, chiediamo qui un impegno convinto e produttivo della nuova Federazione ad affrontare il problema del ciclismo maggiore nel Meridione. Anche in nome di D’Aniello e Rupa, Nibali e Marzoli, Cavaliere e Bucciero, D’Amore e Muto, Salomone e Ferrara, Marotti e Scamardella, Illiano e Giallorenzo.
Non il ciclismo minore, si badi bene, perché sul fronte del volontariato e dell’entusiasmo amatoriale siamo sempre in prima linea, per fortuna: no, quello «maggiore». Quello su strada che aveva il Giro di Sardegna ed il Giro di Puglia, il Giro di Campania e le classiche siciliane, e che vedeva la benedetta Tirreno-Adriatico nascere almeno al di sotto, e non al disopra, del Garigliano. Un ciclismo «maggiore» che oggi non è in grado, per incompetenza-disaffezione periferica o demerito centrale, di tessere un circuito di gare professionistiche, salvo uno stentato Giro della Provincia di Reggio Calabria! Ma è mai possibile che sia così irreversibile questo stato di malattia? Lontani da una geopolitica che non ci appartiene, speriamo vivamente che i prossimi vertici istituzionali riconoscano allora prioritaria tale istanza. In nome, quantomeno, del rispetto di un ciclismo nazionale dalla Federazione unica e dalle pari opportunità. Per l’appassionato e per l’atleta: i primi e forse gli unici a meritarlo.
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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