Caruso: «Io capitano? Ma dai...»

di Giulia De Maio

Non chiamatelo salvatore del­la Patria. Damiano Caruso al Giro d’Italia è stato di gran lunga il miglior corridore italiano, ha conquistato un secondo posto di tutto rispetto alle spalle di Egan Bernal e si è scoperto in grado di essere un capitano, ma non può prendersi sulle spalle una Nazione intera in vista dei Giochi Olimpici.
Il trentatreenne ragusano è stato il pri­mo ad assicurarsi la maglia azzurra per Tokyo2020, meritata sul campo proprio nelle tre settimane in rosa, e sicuramente la onorerà al massimo nella trasferta giapponese ma con il CT Cassani è stato chiaro: «pensare che io possa essere la punta unica della Squadra è utopia».
Uomo di esperienza e prezioso regista in corsa, è consapevole del suo potenziale nelle gare di un giorno, seppur dura come sarà quella che assegnerà il 24 luglio le medaglie con i cinque cerchi. Aspettarsi da lui il grande colpo è un po’ troppo, ma promette battaglia con gli altri quattro uomini che andranno a caccia del sogno olimpico che a Rio è sfumato quando ormai sembrava fatta. Senza farsi illusioni il portacolori della Bahrain Victorius, tornato alle cor­se al Campionato Italiano vinto dal compagno Sonny Colbrelli, ci ha raccontato di quella volta che con il Co­bra aveva litigato, proprio come successo a Nibali e Ciccone a Imola, per poi diventare amici stretti e fidati al­leati in corsa. L’affiatamento sarà la carta fondamentale che l’Italia dovrà giocarsi sull’impegnativo percorso con il Monte Fuji e il Mikuni Pass. Pa­rola di Damiano Caruso che, fiero come il papà poliziotto nella scorta del giudice Falcone, è pronto a vivere un’Olimpiade atipica ma non per questo meno speciale.
Cosa ti resta del Giro?
«Il ricordo di una bella esperienza, la consapevolezza di aver fatto qualcosa di buono per me e per gli altri. Il feedback più gettonato è stato: “Mi hai fatto emozionare”. Sentire che con la mia vittoria all’Alpe Motta ho fatto versare qualche lacrima anche a persone non appassionate di ciclismo mi rende orgoglioso. I miei cari ci han­no sempre creduto più di me: “Hai vi­sto? Te lo dicevamo da tanto tem­po che potevi farcela, è arrivato il tuo momento, goditelo appieno” mi han­no detto tutti. La mia famiglia e i miei amici più stretti mi hanno dato morale, io non ci credevo quanto lo­ro, so­no felice di non averli delusi».
Dopo la festa a Milano sei volato in Bahrain. Strana la vita del corridore di successo, no?
«Eccome. Mi aspettavo un ritorno di po­polarità ma non così importante. Al termine del Giro mi sono piovuti ad­dosso una valanga di impegni, a cui non ero abituato. È stato un piacere in­contrare con mia moglie Ornella il prin­cipe Nasser bin Hamad Al Khalif, che ha fondato il team per cui corro nel 2017, ma il viaggio mi ha costretto a rallentare la preparazione. Quello che sarebbe stato un periodo di riposo fisico, 10 giorni a casa di relax con i piccoli Oscar e Greta che sono abituati ad avermi tutto per loro dopo un grande giro, non c’è stato. Ho dovuto partecipare a feste e cerimonie in mio onore, rilasciare un numero spropositato di interviste ma ora tutto pare tornato alla normalità. Sono riuscito a riprendere i miei ritmi».
E quelli delle gare.
«Durante la settimana del Campionato Italiano ho sentito Sonny tutti i giorni e percepito che ci teneva tantissimo. A differenza mia, aveva preparato al me­glio l’appuntamento, la sera prima di una sfida importante e che va sempre onorata gli ho detto che sarei stato al suo servizio. Onestamente non ho fatto chissà che, all’ultimo giro ha fatto tutto da solo, ha disputato una grandissima gara. Mi hanno informato che aveva vinto quando io ero a cinque chilometri dalla fine: ero contentissimo per la squadra e specialmente per lui, da tem­po inseguiva il tricolore. Sono felice che anche a lui stia finalmente girando bene. Ta­glia­to il traguardo ci siamo ab­bracciati. Il momento in cui ti viene con­segnata la maglia tricolore e risuona l’inno di Mameli è magia pura, io l’ho provato da Under 23. La maglia tricolore è un simbolo, ma anche uno stimolo che per un anno ti dà quella motivazione extra per non sfigurare».
Quanto cambia tra l’aiutare un compagno a vincere ed essere quello deputato a fare risultato?
«Tantissimo. Nel primo caso è più semplice, hai la responsabilità di guidare il capitano fino alle fasi salienti, da te dipende in parte il suo risultato, ma non hai l’obbligo di portare a casa la vittoria in prima persona, non sei sotto pressione come il leader, che ha tutte le aspettative su di sé e sa che non può sbagliare perché deluderebbe la squadra, i tifosi, se stesso. Essere il faro del proprio gruppo è molto più dispendioso a livello mentale».
Sei sempre stato un corridore generoso, un gregario di lusso. Visto le recenti performance, hai rimpianti?
«No, mi sono scelto questo tipo di carriera. Qualche volta avrei potuto ottenere di più, per mancanza di coraggio o fiducia non ci sono riuscito ma sono contento. Quest’ultimo Giro d’Italia mi ha appagato totalmente».
Ora però c’è un altro obiettivo da mettere nel mirino: la prova olimpica in linea.
«Una gara particolare da preparare, la maggior parte di noi non parteciperà al Tour de France, ma correrà solo la Set­ti­ma­na Ciclistica Italiana - Sulle strade della Sardegna proprio a ridosso della partenza per il Giappone. Io mi allenerò a Livigno in altura fino al 12 luglio, pos­so garantire di metterci il massimo dell’impegno e della serietà che mi contraddistinguono, ma non è che Caruso a 34 anni si trasforma nel campione. Pensare a me come il capitano che può lottare per il successo è utopistico co­me è sciocco parlare ora di un leader singolo. Le decisioni le prenderà il se­lezionatore, a oggi non avendo un uo­mo faro nel nostro quintetto, la scelta più sensata è puntare su una tattica di gara a più punte, anzi quella è la nostra unica certezza. Non siamo la nazionale da battere, siamo tra le più in vista ma non abbiamo un favorito secco. Per questo dovremo creare situazioni a nostro favore. Di certo non andiamo a Tokyo in vacanza, ma per trovare la soluzione per portare a casa una medaglia. L’Italia dovrà disputare una corsa aggressiva e non di rimessa, nel finale dovremo sperare che uno di noi abbia la gamba per giocarsela con i migliori. Il CT non deve solo selezionare i cinque elementi più in forma, non è solo questione di prestazione, ma formare un quintetto affiatato che possa rendere al meglio».
A questo proposito le scaramucce tra Nibali e Ciccone all’Italiano possono minare la serenità del gruppo azzurro?
«Spero proprio di no. Sono cose che succedono mille volte in ga­ra, l’importante è, dopo una bella doccia, sedersi e parlarsi, analizzare cosa è successo e chiarirsi. In gara siamo nervosi, quel giorno c’erano 40°, il caldo dà alla testa. Indipendentemente da chi ha ragione. A me è successo con Sonny al Tour dell’anno scorso, durante una tappa ci siamo mandati a quel paese poi la sera stessa ci siamo riappacificati e da quel giorno siamo più amici di prima. Il motivo della di­scus­sione? Scemenze, anche quel giorno faceva un gran caldo e c’era troppo nervosismo. Litigano ma­rito e moglie, figurarsi dei colleghi».
Indossare la maglia azzurra è...?
«Una responsabilità a cui ho sempre dato un gran valore. La prima volta l’ho vestita da junior al Giro di Ger­ma­nia, fu un sogno. Partimmo in pullmino da Milano per Osnabrück, nel nord del Paese, un viaggio folle e tutt’altro che comodo ma a me non fregava niente talmente ero contento. An­cora oggi quando arriva una convocazione la prendo mol­to seriamente. Strap­par­la non deve essere un ca­priccio, va guadagnata. Da professionista ho avuto l’onore di partecipare a tre mondiali (Ponferrada 2014, Innsbruck 2018 e Imola 2020) e agli scorsi Gio­chi Olimpici a Rio de Janeiro. Ogni volta è una gioia rappresentare il proprio Pae­se».
Cosa ti rende orgoglioso di essere italiano?
«Ho la fortuna di aver girato il mondo in lungo e in largo, di posti belli ne ho visti ma mai quanto quelli che l’Italia regala da nord a sud, da est a ovest. Abbiamo dalle montagne al mare più belli del mondo, ogni regione ha la sua storia e la sua cucina, di carattere sia­mo aperti, accoglienti, solari. Chia­ra­men­te abbiamo anche i nostri difetti, non viviamo in una favola, ma io amo l’Italia per quello che è, con virtù e vizi che ci contraddistinguono».
Quelle che ci aspettano saranno Olimpiadi inedite, come te le aspetti?
«A Rio nel 2016 ho vissuto appieno il clima olimpico. Abbiamo abitato nel villaggio, visto migliaia di sportivi di tutte le nazioni, che si allenavano do­vunque e mangiavano in questa mega cucina che offriva cibi provenienti da ogni angolo del mondo. Quest’estate saremo lontani da Tokyo, in un hotel, nella nostra bolla, ci alleneremo da soli, incroceremo le altre nazionali so­lo sulla linea di partenza e il percorso non sarà pieno di gente come in Bra­si­le ma sarà comunque una gara importantissima e seguitissima».
Di Rio cosa ricordi?
«Mi impressionò incrociare nel villaggio Michael Phelps, che alla sua ultima Olimpiade vinse cinque medaglie d’oro e una d’argento, ma mi venne la pelle d’oca già solo guardando “a casa nostra”. Essere nella stessa delegazione con la regina del nuoto Federica Pel­legrini, che non avevo mai visto di persona mi fece capire che ero parte di un evento davvero enorme. Della giornata di gara ricordo che tutto era filato via liscio come raramente accade e in un attimo la sfortuna ci ha riportato con i piedi per terra. Da una medaglia ormai sicura ci siamo trovati con un pugno di mosche in mano e le ossa rotte. Eravamo tutti delusi, soprattutto per Vincenzo».
A Tokyo quali saranno i rivali più temibili?
«Ho studiato il percorso solo sulla car­ta, è impegnativo e farà caldo. Non esiste ancora una starting list ufficiale, per certo non ci saranno Alaphilippe e Bardet, ma i big non mancheranno. La sfida olimpica me la immagino come una tappa di montagna, se dovessimo accostarla a una classica opterei per una Liegi ma più dura, gli atleti che possono vincere su un percorso con 4.000 mt di dislivello sono i soliti noti. Le nazionali inglese e slovena saranno molto attrezzate, ma con 5 uomini sarà impossibile controllare 230 km di gara. Sarà complicata tatticamente e per que­sto, se si corre bene, si può tagliar fuori dai giochi anche nomi importanti. Non avremo le radio, sarà fondamentale seguire una strategia chiara per raggiungere l'obiettivo».
Vedere un compagno come Viviani sfilare come portabandiera nella cerimonia di apertura come sarà?
«È una prima volta storica per il ciclismo. Elia si è guadagnato sul campo questo onore perché è un bravo ragazzo e ha raggiunto traguardi importantissimi, è il volto giusto insieme a Jes­sica Rossi per rappresentare noi atleti e la nostra Italia».
Questi Giochi rappresenteranno un pun­to di ripartenza dopo la pandemia?
«Non dobbiamo abbassare la guardia, ma spero di cuore si cominci a poter parlare al passato del covid e non più al presente. Lo auguro a tutti noi».

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