Gatti & Misfatti

Mondo anaerobico

di Cristiano Gatti

Ne abbiamo parlato tutti durante l’ultimo Giro, ne abbiamo parlato talmente tanto che alla fine diventa persino difficile cavare fuori dall’alveare qualche conclusione. Il tema non è per niente fuffesco: come sta diventando - o è già diventato - il ciclismo nuovo?

Ascoltando tutti, osservando a destra e a sinistra, a me pare di aver capito alcune cose chiare e definite. Non molte, ma ormai as­sodate. Vado subito alla più im­portante, che di fatto riassume un po’ tutto quanto: si passa dal ciclismo dei fachiri e del fondo al ciclismo degli scattisti e dell’agilità. Cala il peso della resistenza e aumenta enormemente quello dell’esplosività. Tutto questo grazie a chilometraggi ridotti, a quote più basse, a difficoltà attenuate. La tentazione è di definirlo subito più spettacolare, questo ciclismo, ma tutto sommato mi sembra di doverci andare più piano con questa conclusione, perché il concetto di spettacolo è molto personale, ognuno ha il proprio gusto e di sicuro non si può trovare una formula buona per tutti.

Restando fuori dal giudizio estetico, che ognuno si fa in proprio, userei questa definizione: si passa da un ciclismo aerobico al ciclismo anaerobico. Pochi respiri profondi e tante apnee. Un ci­clismo più nervoso, per certi versi più nevrotico, meno ponderato e paziente. Fatica, resistenza, sopportazione, perseveranza: tutto in secondo piano. Comanda la capacità di sopportare sforzi brevi e violenti, la potenza pura, la velocità assoluta, gli attimi diventano più de­cisivi delle ore. E un ciclismo anaerobico che toglie il respiro, tutti a tutta per un tempo più breve (vedi le medie record), è un ciclismo dunque che a livello fisico favorisce i giovani, perché la resistenza e il fondo ma­turano con gli anni (e infatti chi ci dice che il baby-boom dei ventenni volanti non sia favorito da questo nuovo habitat).
È chiaramente un ciclismo anae­robico che toglie il respiro, che alza i battiti di chi corre e anche di chi guarda, per emozioni più concentrate e più in­tense, anche se inevitabilmente toglie un po’ il respiro all’epica di sempre. Da questo punto di vista, si apre un codice estetico più allineato a quello della For­mula 1 e del MotoGp, mondi in cui la fatica conta meno del­la rapidità e della destrezza.

Non dovrei neanche specificarlo: non sto stabilendo leggi assolte e universali, sto solo provando a capire. Non parlo di teoremi ri­gidi, parlo di tendenze generali. Da questo punto di vista, non è nemmeno una tendenza così strana e sorprendente. Io trovo che sia perfettamente in linea, com’è normale, con la direzione che ha preso il mondo intero. Siamo entrati nella stagione della velocità e della rapidità, che ha abolito gli ostacoli troppo alti, le fatiche troppo pesanti, i problemi più ardui. La fatica e la sofferenza, che tra i sag­gi antichi erano la base per sviluppare il meglio dell’uomo, non sono più dei valori, sono diventati colossali seccature, da combattere in tutti i modi, tant’è vero che noi occidentali ormai puntiamo tutto sul robot e sul telecomando, schiacciare un bottone è il massimo dello sforzo che ci piace sognare, con un’estate fresca e un inverno mite, con la birra senza alcol e le caramelle senza zucchero, l’hamburger senza carne e il lat­te senza lattosio.

Via, non prendiamoci alla lettera, sto giocando un po’ con i paradossi perché ci si possa capire al volo. Il no­stro nuovo ciclismo semplicemente si allinea al nuovo stile di vita, più light e più veloce, e siccome prima o poi bisogna pur dirlo, diciamolo: più smart. Adesso che l’ho detto, concludo dicendo che ogni giudizio è ri­spettabile. Segnalo soltanto che questa tendenza, ormai evidentissima, prevede continui aggiustamenti di percorso. Più avanti arriveremo al punto che i Ga­via, gli Stelvio, i Colle dell’A­gnel­lo nemmeno li metteremo più nel tracciato del Giro, perché tormenti insostenibili, con quel maledetto vizio che hanno di stare troppo in alto, esposti alle intemperie, insopportabilmente crudeli per i superuomini del giorno d’oggi. E ancora più in là, io intravedo persino la svolta finale, quella definitiva e irreversibile: la bici elettrica. È il cavallo ideale del nuovo millennio: più puledro che mu­lo, diventa ideale per il ciclismo anaerobico e frenetico del giorno d’oggi, con pochi sforzi concentrati in pochi momenti, sen­za esagerare, il resto affidato all’aiutino della pedalata assistita, per rifiatare a dovere, evitando fatiche disumane. Su tut­to, il nuovo slogan del Giro, adeguato ai tempi: “La corsa più smart del mondo nel Pae­se più cool del mondo”.

Èpiù bello, è più brutto questo nuovo ciclismo? Torno a ripetere fino al­la noia: non esiste risposta, se non nel gusto e nelle aspettative di ogni singolo appassionato. C’è chi preferisce l’astrattismo agli affreschi di Giotto, ciascuno si diverte e sogna a modo suo. La cosa più importante, mi pare, è che sia una scelta sincera e sentita. Se invece è soltanto abbassare la testa, come tan­te altre volte, a una nuova mo­da, ogni discorso crolla prima ancora di cominciare. Questo non è scegliere, è solo obbedire come servi sciocchi. Ma non c’è più gusto.

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