Gran parlare si fa del ritorno di Mario Cipollini, annunciato da lui stesso. Sui ritorni celebri dello sport, in appena o addirittura mezzo secolo di giornalismo ad hoc e dunque di constatazioni dirette ci siamo fatti una certa idea: funzionano se sono la reazione ad un evento traumatico, da cui il campione prende, per una sorta di principio di Archimede applicato a situazioni umane psicofisiche, una spinta eguale a quella ricevuta in senso contrario. Non funzionano se sono oggetto e conseguenza di meditazioni, pensamenti, valutazioni di vario tipo. Parliamo ovviamente di casi importanti, di ritorni di spicco, molto seguiti. Così, al volo, ci viene in mente un solo grande ritorno riuscito in pieno nel mondo dello sport e intanto non legato ad un ritiro per fatto traumatico: quello del cestista statunitense Michael Jordan. Ma si tratta appunto di un caso, e riferentesi a colui che non solo è riconosciuto come il più grande giocatore di basket del mondo e di ogni tempo, ma anche a colui che molti pensano in assoluto il massimo atleta mai apparso nello sport, e potenzialmente capace, ad esempio, di favolosi primati mondiali di salto in alto, in lungo e triplo.
Il fatto traumatico appare al campione come una violenza da parte del destino, e lui vuole reagire. Naturalmente necessita la guarigione completa dal punto di vista clinico, e poi il campione ha una forza in più, quella del revanscismo. Niki Lauda che rischiò nel 1976 di morire nel rogo della sua auto sul circuito tedesco del Nurburgring volle vendicarsi non solo sul destino, ma anche su quella pista maledetta: ridivenne campione del mondo e vittoriosamente lottò per far sì che il tracciato venisse modificato. Ma senza fare troppi giri del mondo, proprio il ciclismo permette di assistere, ormai da sei anni, alla vendetta sul destino mandata avanti da Lance Armstrong, aggredito addirittura da un tumore.
Nel caso di Cipollini il fatto traumatico non esiste, a meno di pensare che lo sia l’avvento di Petacchi... Il grande Mario aveva già reagito eccome al trauma di una tremenda caduta, con conseguenze sul fisico inferiori forse a quelle sulla psiche, e comunque nonché per fortuna una caduta più spettacolare che devastante. Non che abbia esaurito un bonus, ma questa volta davvero sembra che manchi proprio quella spinta archimediana di cui abbiamo detto. Lo scriviamo sperando fortissimamente di sbagliare, si capisce, e questa volta non si tratta soltanto della formula con cui il giornalista si cautela di fronte ad una sua previsione che potrebbe essere smentita, ma di complessiva ammirazione per un personaggio di cui ricordiamo una stretta di mano preolimpica (Atlanta 1996): perché soltanto le mani di certi contadini forti e genuini ci sono sembrate al tempo stesso così vaste e così calde.
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Domanda delicata: riuscite, riusciamo a immaginarci un Pantani nella parte di un Maradona? Un Marco gonfio e grasso, spaventosamente grasso, che passa di clinica in clinica, che appare in televisione biascicando frasi spesso incomprensibili, e non solo per il suo distacco dalla lingua italiana appresa a Napoli. Che viene applaudito e ride e non si capisce cosa ci sia da ridere. Che sputa sentenze magari proprio per non giudicarsi. Che provoca nei propri riguardi una pena superiore persino all’ammirazione che provocò. Che si fa scortare da amici improbabili, da donne strane. Che naturalmente accusa la società di essere in grandissimo debito verso di lui. Che dice di essere sempre stato lasciato solo scordandosi di quando diceva che non ne poteva più della stretta amorosa della moltitudine.
Fortissimamente temiamo che Pantani, se ancora vivo, potrebbe rischiare di essere un altro Maradona. Mentre il Maradona che c’è basta e avanza, lo diciamo con il massimo rispetto per il suo passato e la massima allergia per il suo presente.
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Non ci piace neanche il minuetto fra Armstrong e il Tour, anzi fra Armstrong e l’ipotesi della sua partecipazione al prossimo Tour, che dovrebbe essere il suo settimo consecutivo vittorioso. Non ci piace anzittutto perché la faccenda viene gestita in chiave di suspence, e magari invece è già tutto deciso. Non ci piace perché comunque si finisce sempre in un vicolo cieco, anzi per dirla alla francese in un cul-de-sac.
Se Armstrong gareggia e vince si deve dire che il ciclismo tutto, eccetto lui, davvero non vale niente, visto che in sette anni non riesce a produrre un antagonista valido di un uomo malato di tumore. Oppure si riprende a parlare e a sparlare della sua particolarissima situazione sanitaria: ed è peggio ancora.
Se Armstrong gareggia e perde, si deve dire banalissimamente di fine di un impero, si deve celebrare il re che muore più che il delfino che gli subentra, quando addirittura non si arrivi a dire di un maramaldeggiare su un morente. Se non gareggia, si deve fare la tara a chi vince, con l’imprescindibile domanda piallatrice: cosa avrebbe fatto la maglia gialla se ci fosse stato in gara Armstrong?
Non c’è via di uscita. Se almeno la decisione venisse presa presto, ci sarebbe il tempo per costruire un nuovo tipo di attesa. Ma sembra proprio che il minuetto debba andare avanti a lungo, ogni titolo fa tiratura.
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Complimenti a Damiano Cunego: era difficilissimo gestire bene questo anno, con il Giro vinto, il no al Tour, il Mondiale perso, la sorpresa finale del primato nella classifica Uci. Personalmente pensiamo, di fronte a repenti celebrità dello sport, con conseguenti favolosi arricchimenti, che un giovane è già enorme personaggio capace di un miracolo se, con tutto quello che gli piove addosso di formalmente, di spettacolarmente bello, non diventa completamente pazzo, e in pochissimo tempo. Vero che il ciclismo non dà la celebrità e l’opulenza economica di altri sport, tipo calcio, automobilismo o magari anche tennis, ma insomma siamo pur sempre su un alto livello di campionismo da culto, di masse adoranti.
Cunego sinora è stato perfetto. Merito di lui, di altri intorno a lui. Un pochino anche di noi giornalisti: non siamo stati troppo famelici, troppo affamati di campione da consumare.
Merito anche di Ivan Basso con il suo terzo posto al Tour. E di Paolo Bettini con la sua Olimpiade e la sua Coppa del Mondo. Merito del ciclismo, che anche quando si consegna epocalmente a un bipede riesce sempre a far sì che questo bipede rimanga umano, non diventi mai umanoide.
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