
di Francesca Cazzaniga
Johann Sebastian Bach ha composto L’arte della Fuga, Thomas De Gendt della fuga ne ha fatto un’arte. è il suo marchio di fabbrica, il suo modo di inseguire la vittoria, di caratterizzare un’impresa, di lasciare un segno. Di sfuggire agli stereotipi, di scrivere pagine di storia, di vivere l’avventura e di volare via, lontano.
L’uomo delle fughe è nato a Sint-Niklass, nel cuore delle Fiandre, il 6 novembre 1986 e pedala nel gruppo dei prof dal 2009: Topsport Vlaanderen Vacansoleil-DCM, Omega Pharma e Lotto Soudal le sue squadre, sedici le sue vittorie (quest’anno la prima della Volta a Catalunya e l’ottava del Tour de France).
Come hai iniziato ad andare in bici?
«Ormai sono passati tanti anni ma il ricordo è impresso nella mia mente. Ho iniziato grazie a mio fratello Jurgen, che ha 11 anni più di me e faceva ciclocross. Mi piaceva molto guardare le corse, così ho deciso di provare ad usare un po’ la bici come passatempo nel giardino di casa nostra. A 10 anni ho iniziato a fare qualche piccola gara in Olanda e ho capito che non potevo più farne a meno. È stato subito un grande amore e così ho deciso di non lasciare mai più la mia bicicletta. Ad oggi non rinnego niente, anzi rifarei tutte le scelte che ho fatto in passato».
Qual è stata la tua prima corsa World Tour?
«È stata l’Amstel Gold Race nel 2009 con la maglia della Topsport Vlaanderen-Mercator, formazione Professional fiamminga. Che ricordi, solo a pensarci mi vengono ancora i brividi».
La tua prima vittoria nella massima categoria?
«Dopo due anni tra i “grandi”, è stata la prima tappa della Parigi-Nizza nel 2011. La prima vittoria da professionista è come il primo amore, quello che non si scorda mai».
Nel 2019 sei stato l’unico corridore a disputare e portare a termine i tre Grandi Giri. Com’è stata questa esperienza? Hai intenzione di ripeterla?
«Ho fatto bene al Giro d’Italia ottenendo anche dei buoni risultati come il terzo nella cronometro finale a Verona. Al Tour sono riuscito a fare ancora meglio vincendo l’ottava tappa a Saint-Etienne e piazzandomi terzo nella crono di Pau. Nella tappa che ho vinto, ho staccato Alessandro De Marchi in salita e sono andato a tutta: il gruppo era sempre più vicino, ero consapevole di avere pochi secondi di vantaggio ma non ho mollato e ci ho sempre creduto. Alla fine è stata una grande gioia per me e per la mia squadra, la Lotto-Soudal. Anche alla Vuelta non sono andato male anche se ho iniziato ad accusare la fatica dei due grandi giri precedenti. Se durante il Tour de France potevo attaccare quattro, cinque, sei volte e recuperare dieci minuti dopo, alla Vuelta è stato differente: attaccavo solo due o tre volte e avevo bisogno di molto più tempo per recuperare. È stato bellissimo fare tutti e tre i Grandi Giri in un anno, ma che fatica! Ad oggi sinceramente non so ancora se ripeterò il programma della stagione appena conclusa. Per l’anno prossimo l’idea è quella di disputare Giro d’Italia e Tour de France, successivamente insieme al mio team valuterò se fare anche la Vuelta, molto dipenderà dalla mia condizione e tenendo in considerazione il fatto di essere nell’anno olimpico.
Alla luce dei risultati ottenuti, sto pensando alla crono dei Giochi di Tokyo 2020».
Tre grandi giri a tutta: ma cosa fai nel giorno di riposo?
«Che belli i giorni di riposo! Faccio il meno possibile... Se non piove vado in bicicletta un’oretta per mantenere le sensazioni poi però cerco di non muovermi per quasi tutto il giorno. Sto a letto, guardo film e ascolto la musica. Il giorno di riposo lo prendo proprio alla lettera».
Qual è la tua giornata tipo durante i grandi giri?
«Sono metodico, faccio sempre le stesse cose: mi alzo, faccio colazione, bevo il caffè, vado al bus, meeting pre-partenza, indosso i vestiti da corsa, firmo, vado alla partenza, parto, soffro e arrivo, doccia sul bus, torno in hotel con il bus, riposo in camera, ceno, riposo in camera e dormo. Un robot forse, è meno metodico di me...».
Torniamo al trionfo di Saint-Etienne. Cos’hai pensato quando hai alzato le braccia al cielo?
«A dir la verità non ho pensato molto. Negli ultimi 500 metri l’unica preoccupazione era “Spero che non mi raggiungano, non possono raggiungermi” ed in un attimo mi sono trovato al traguardo».
Quante corse hai fatto quest’anno?
«Tante, troppe. Quest’anno ho corso per ben 91 giorni. È stata una stagione molto intensa. Ma sono bastati pochi giorni di riposo per ricaricare le batterie e ritrovare la voglia di tornare in sella alla mia bicicletta».
Hai un fan club in Belgio?
«No, non ce l’ho. È strano vero?».
Sei anche famoso anche per il tuo modo di raccontarti sui social network…
«Mi piace raccontare quello che penso e i miei follower apprezzano quello che dico. Mi piace anche giocare ogni tanto. Ci sono troppi corridori che postano sui loro social network solo quello che viene detto loro dall’addetto stampa. A me piace postare di mia spontanea volontà, chiaramente tenendo in considerazione il mio essere un personaggio pubblico e il mio ruolo in seno ad un team professionistico».
Quale genere di musica ascolti prima delle gare?
«Rock, hard rock e heavy metel. Mi danno una forte carica, servono anche a svegliarmi. A volte sono meglio del caffè…».
Qual è la tua corsa preferita?
«Il Tour Down Under in Australia. È la prima corsa della stagione, si respira un’atmosfera piacevole e rilassata, oltre ad essere una corsa è anche una piccola vacanza».
Come programmi le tue tappe corse?
«Non le programmo. Non mi piace fare programmi, vivo il momento. Quello che faccio è solo provare a staccarmi dal gruppo e andare in fuga quando ho un ruolo libero in squadra. Una volta fatto questo, che non è poi così facile come dirlo, le gambe e le sensazioni decidono se posso giocarmi la vittoria. Il mio punto di forza sono le tappe troppo dure per i velocisti e troppo facili per quei corridori che curano la classifica. Sono strano… lo so».
Come si vive nel team Lotto Soudal?
«Siamo un team a cui piace molto attaccare e che prova ad essere “aggressivo” nel modo di correre. Tra di noi siamo amici: è molto importante avere un buon rapporto con i compagni di squadra, visto che passiamo molto tempo insieme. Penso alla squadra come ad una seconda famiglia, quindi avere buoni rapporti è fondamentale».
Per tutti sei diventato l’uomo delle fughe.
«È il mio marchio di fabbrica. L’andare in fuga rappresenta per me il solo modo per poter vincere una corsa. Appena posso scatto, anche se bisogna essere un po’ pazzi per attaccare così tanto come faccio io, perché si fa una gran fatica. Ma qualche volta la mia pazzia viene ripagata e riesco a vincere qualche tappa».
Spesso i grandi atleti imparano molto dalle loro sconfitte. È capitato anche a te?
«Fa parte della vita avere degli alti e bassi, è normale. A me è successo spesso di non arrivare al risultato. Nel 2018 ho corso novanta giorni e ho calcolato che in trentaquattro di questi potevo fare la corsa. Sono andato in fuga ventisei volte e ho vinto solo in due occasioni. Fallisci il 94% delle volte, ma l’importante è non demoralizzarsi mai. Io ho sempre cercato di analizzare le situazioni e di capire come e dove potevo migliorare, per cercare di abbassare un po’ la mia percentuale di fallimento».
Secondo te come cambierà il ciclismo nei prossimi anni?
«È già cambiato tanto rispetto ad anni fa, sta andando tutto più veloce. Ogni anno mi alleno in modo sempre più duro e professionale solo per essere in grado di poter vincere. Una volta c’erano corridori “worldclass”, i veramente bravi, quelli bravi, quelli mediocri e i corridori “più scarsi, quelli deboli”. Adesso non ci sono più i corridori scarsi o mediocri, il livello si è alzato tantissimo. Tutto questo è un bene per il movimento ciclistico internazionale, ne sono sicuro».
Su Twitter qualche mese fa hai lanciato una provocazione: «Tutti i ciclisti possono firmare questa petizione per negare a Mathieu Van der Poel, Wout Van Aert e Remco Evenepol la possibilità di partecipare alle corse su strada per i prossimi quattro anni. Grazie». Cosa pensi del ricambio generazionale che sta investendo il gruppo?
«Ci sono tanti giovani talenti, sono troppo forti. E l’anno prossimo ce ne saranno ancora di più. Aiuto!».
Quali sono i tuoi programmi per la prossima stagione? Che corse farai?
«Ho parlato pochi giorni fa con il mio preparatore Paul Vandenbosch e ad oggi penso - ma non ho ancora la certezza - che questo sia il mio programam di massima: Tour Down Under, Parigi-Nizza, Volta a Catalunya, Giro dei Paesi Baschi, Giro d’Italia e Tour de France. Tutto chiaramente dipende anche dall’approvazione della mia squadra».
Il 2020 è l’anno olimpico. Ci pensi? Ne hai già parlato con il selezionatore belga Rik Verbrugghe?
«Sì, ne ho parlato con lui e valuteremo strada facendo. L’Olimpiade è una corsa che mi manca, penso possa essere una grandissima esperienza».
Dopo il Giro di Lombardia 2018, tu e Tim Wellens siete tornati a casa in bici. E quest’anno vi siete ripetuti raggiungendo Teruel e la “Lapponia di Spagna” in sella ad una gravel. Come è nata questa idea?
«Volevamo fare qualcosa di diverso con la bici. Avevamo bisogno di uscire dagli schemi della solita routine del corridore professionista. Ci alleniamo sempre oppure siamo alle corse con degli obiettivi ben precisi, come giusto che sia. È nata così un po’ per caso: una nuova esperienza sulla bici quella di pedalare solo da un hotel all’altro senza pensieri e preoccupazioni. Senza fughe, anche se mi piacciono molto. Io e Tim, come tutti i corridori, durante la stagione non abbiamo mai tempo per poter improvvisare un viaggio in bicicletta. Ci siamo goduti la natura, il mondo attorno a noi, cosa impossibile durante le corse».
Come vedi il tuo futuro?
«Vorrei correre ancora per qualche anno perché penso di poter dare ancora tanto a questo sport. Quando deciderò, spero il più tardi possibile, di appendere la bicicletta al chiodo tutte le opzioni saranno aperte. Chissà cosa mi riserverà il futuro…».
Sei sposato? Hai figli?
«Sono sposato da 7 anni con Evelyn e abbiamo due figli, Timo di cinque anni e Amber di quattro».
Cosa fai nel tuo tempo libero?
«Sto con loro per quanto possibile. E poi gioco molto, soprattutto con la ps4, quando ho tempo, ovvero quasi mai...».
Sei superstizioso?
«No. In realtà seguo un ordine ben preciso per fare le cose prima di correre ma è una scelta figlia della necessità: sono sbadato e lo faccio per ricordarmi tutto quello che devo fare».
Cosa ti ha insegnato la bicicletta?
«Che non bisogna mollare mai, perché la vista migliore arriva sempre dopo le salite più dure. Il ciclismo è una grande palestra di vita».
Tre parole per descrivere la bicicletta.
«Libertà, disciplina, sofferenza».
Quale consiglio vorresti dare ai nuovi giovani atleti?
«Divertitevi e amate la bicicletta. Divertitevi il più possibile fino a quando non avrete bisogno di fare sul serio con gli allenamenti, poi sì che sono cavoli amari…».
Hai un sogno nel cassetto?
«Ho realizzato tutti i miei sogni nel ciclismo. L’ultimo era quello di riuscire a finire tutti e tre i Grandi Giri in un anno… e ce l’ho fatta».
Chi vorresti ringraziare?
«Mi piacerebbe dire grazie a tutte le persone che hanno fatto parte della mia lunga e bellissima carriera. Anche le brutte esperienze hanno fatto sì che io diventassi quello che sono oggi. Un uomo diverso».