Gimondi raccontato da Ferretti. «Un grande campione, un grande uomo»

di Giulia De Maio

Da quando Felice Gimon­di ci ha lasciato ci sentiamo tutti un po’ più soli, so­prat­tutto chi ha avuto la fortuna di vivere al suo fianco grande parte della propria esistenza. È il caso di Gian­car­lo Ferretti, Feròn come lo aveva so­prannominato proprio il campione bergamasco, di cui è stato compagno pri­ma e direttore sportivo poi. Oltre che amico da sempre. E per sempre.
«Parlare di Felice in questo momento per me è davvero difficile. Gli abbiamo detto addio solo pochi giorni fa... Ci siamo conosciuti 54 anni fa, abbiamo iniziato a correre insieme alla Salvarani con il grande Luciano Pezzi, poi al suo fianco ho vissuto tutte le sue avventure su e giù dalla bici. Ci trovavamo bene non solo in corsa, caratterialmente eravamo molto simili. Tipi tosti, che non si abbattono davanti alle difficoltà ma, anzi, le affrontano con coraggio» esordisce senza riuscire a trattenere le lacrime il “Sergente di Ferro”.
Felice era il suo capitano, il suo pun­to di riferimento, ma era anche, anzi soprattutto, il suo amico, l’uomo con cui ha trascorso tantissimi giorni e tantissime notti, chiusi nelle camere d’al­bergo a parlare di progetti, desideri, malinconie, paure e sogni, molti concretizzati insieme.
«Eravamo spesso compagni di camera. Prima di chiudere gli occhi parlavamo della tattica di gara del giorno dopo. Se lui non era d’accordo con quello che gli suggerivo non discutevamo. Gli dicevo: “Dormiamoci su e vediamo domani”. Generalmente la mattina, quando si svegliava, mi prendeva da parte: “Fac­ciamo come hai detto tu, Feròn”. Ci fi­davamo l’uno dell’altro. Proprio come fratelli» continua il 77enne romagnolo evidentemente emozionato.
Di aneddoti ne avrebbe un milione, ma è presto per poterli raccontare con leggerezza. In un anno trascorrevano al­meno 250 giornate insieme, quante ne hanno vissute in giro per il mondo. Al­le gare erano inseparabili, dopo cena all’epoca i corridori non si chiudevano in stanza con lo smartphone in mano, uscivano a fare due passi e a chiacchierare. Come la prima volta che la loro strada si incrocia con quella del Cannibale Eddy Merckx. Alla Vuelta Catalunya del ’68 Felice, che fino ad al­lora era stato l’uomo da battere, viene sconfitto in modo brutale dal giovane belga di cui i cronisti avrebbero ben presto imparato a scrivere correttamente il cognome. Felice e Giancarlo trascorsero una serata in spiaggia a interrogarsi sui perché di quella sconfitta. Felice non si dava pace, Giancarlo cercava invano di rincuorarlo. Il suo ami­co ci impiegò un anno e mezzo per ri­prendersi da quella “bastonata”.
La loro storia è costellata di sconfitte, ma soprattutto vittorie. Non a caso Gi­mondi può essere considerato un mito dello sport. Solo Coppi e Bartali sono stati più grandi di lui. È uno dei 7 corridori (con Anquetil, Merckx, Hinault, Contador, Nibali e Froome) ad aver vinto tutti e tre i grandi giri. Dal ’65 al ’79 ha ottenuto 118 vittorie tra i professionisti tra cui spiccano tre Giri d’Italia (1967, ’69 e ’76), il Tour del 1965, la Vuelta del 1968), 4 classiche monumento - la Parigi-Roubaix ’66, la Milano-Sanremo ’74 e i Giri di Lom­bardia nel ’66 e nel ’73, più una maglia iridata.
«Ricordo bene il Mondiale del 1973 a Barcellona, anche se quel giorno non ero fisicamente in Spagna. Avevo se­gui­to la preparazione di Felice, che era meticoloso fino all’eccesso, e poi ero tornato in Italia. Quando in tv lo vedo assieme a Ocaña, Merckx e Maertens a un soffio dall’arrivo penso: stavolta ce la fa. E difatti Felice, come mi ha confessato anni dopo, sceglie la tattica giusta: battezza la ruota di Merckx, lascia che gli altri due scattino e poi piazza lo spunto decisivo. Fantastico!»
Al Giro di Lombardia di quell’anno, in au­tunno, un’altra impresa: vederlo pe­dalare era un incanto.
«Il fatto è che lui pretendeva che anche gli altri, cioè noi compagni, facessero quello che faceva lui - continua Fe­ròn schiarendosi la voce. - Una volta che si era lamentato del comportamento della squadra l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: “Se tutti riuscissimo a correre come te, ci sarebbero tre, quattro o cinque Gimondi. Invece ce n’è uno solo”. Lui capì e, generoso e onesto com’era, ci ringraziò sempre dell’aiuto che gli davamo».
Alla festa per i suoi 75 anni Felice ra­dunò tutti i suoi gregari, che amava chiamare soltanto amici, e prendendo il microfono pronunciò parole dolcissime: chiese loro scusa, «perché vi ho tirato il collo, vi ho chiesto tanti sacrifici e poi a vincere ero soltanto io». Que­sto era Gimondi.
Ferretti ha vissuto da vicino la rivalità tra Felice e Merckx. «Batterlo era un’ossessione, anche se si rendeva conto che Eddy era più forte. Dove il bel­ga arrivava con la forza, con la po­tenza, con la classe, con il talento naturale, Felice giungeva con il metodo, con la tenacia, con la grinta, con lo spirito di sacrificio. Non l’ho mai sentito dire “sono stanco”. Era sempre il primo a cominciare gli allenamenti e l’ultimo a concluderli. In lui c’era una cura maniacale dei particolari, era un vero professionista. Viveva il ciclismo come un frate vive la religione: non esisteva altro al di fuori della bicicletta. Ripeteva sempre: “Le cose devono es­sere fatte per bene”. E per farle bene era disposto a qualsiasi fatica».
E ancora: «Quando vinse la Milano-Sanremo nel 1974, da campione del mondo, capì che era pericoloso attaccare sul Turchino, ma fece due conti e si disse che non poteva fare altrimenti. E poi, con coraggio, cominciò a mulinare i pedali e staccò tutti fino ad arrivare a braccia alzate sul traguardo. Quella vol­ta non c’era Merckx, è vero, ma se­condo me lo avrebbe battuto lo stesso».
Felice volle Giancarlo come direttore sportivo alla Bianchi. Anche di quegli anni i giorni da ricordare non si contano.
«Mi viene in mente la Parigi-Bru­xelles 1976, che all’epoca era una grande classica. Andai alla riunione dei diesse, presi le tabelle, le targhe, i nu­meri dorsali che allora erano di stoffa, e mi sorpresi di non vedere neanche un giornalista italiano al quartier tappa. Verificai anche con gli inviati francesi: la stampa italiana non c’era. Tornato in hotel, andai in camera di Felice per dirglielo. La sua replica fu memorabile: “Sei sicuro? Non ce n’è neanche uno? Va bene, allora domani vinco io”. È l’unica volta che gliel’ho sentito dire».  
La sua eredità non andrà perduta e de­ve essere d’esempio per i ciclisti di og­gi.
«Dalla sua storia un giovane può imparare moltissimo. Non è stato semplicemente un grande campione, ma soprattutto un grande uomo. La sua qualità migliore è stata l’onestà. Per lui la di­gnità contava più dei successi. Felice mi ha insegnato tanto. Non era un mae­stro, ma bastava guardarlo e co­piarlo per essere un po’ migliore. Mi manca già da morire».

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