Trentin, il riscatto di Matteo

di Giulia De Maio

L’8 aprile Matteo Trentin doveva correre la gara dei suoi sogni, quella a cui tiene di più di tutto l’anno, la Paris-Roubaix, finalmente da capitano, e poi tornare a casa. Invece, prima di arrivare alla Fo­re­sta di Arenberg, una caduta rovinosa ha infranto le sue ambizioni e gli ha provocato un dolore atroce. Il verdetto è stato im­pietoso: frattura di una vertebra toracica. La notte l’avrebbe dovuta trascorrere in ospedale e non nel suo letto. Per avvisare la famiglia del cambio di programma, chiama la moglie Claudia e poi parla al telefono con il piccolo Giovanni: «Torno presto, non stasera però. Purtroppo de­vo stare con i dottori, lo sai che mi re­galano l’armatura di Batman?». 
«Dov’è? Non c’è il pipistrello» ha subito notato il primogenito, sfoggiando un pigiamino con il logo del suo supereroe preferito, quando il papà è rincasato con indosso il corpetto rigido nero a proteggere il torace ferito. Allora via di ricerca su google e di stampante, per completare il mantello da difensore della legge nell’immaginaria città di Gotham City.
Quattro mesi più tardi SuperTrento, che sulle strade di Glasgow ha trovato in Davide Cimolai un Robin perfetto, ha scritto il finale più dolce per il suo personale fumetto d’avventura.
Il ventinovenne di Borgo Valsugana, da quest’anno in forza alla Mitchelton Scott, è un attaccante dalla scorza dura, che non scopriamo di certo oggi. Aveva già vinto una tappa al Giro d’Italia, due al Tour de France e quattro alla Vuelta a España, oltre a due Parigi-Tours. Un anno fa al mondiale di Bergen chiuse giusto ai piedi del podio, con al collo una medaglia di legno che gli stava stretta. Ora, indossando la maglia bianca e azzurra di campione europeo (che finora hanno avuto l’onore di vestire solo Sagan e Kristoff), ha trovato la de­finitiva consacrazione.
Che effetto fa vestire questa divisa speciale?
«Solo ora che sono alla Vuelta mi capacito di cosa ho combinato (sorride, ndr). Indossare il mio nuovo kit alla Classica di Amburgo, cogliendo il quin­to posto, è stato emozionante. Per realizzarlo, alla Giordana hanno lavorato anche a Ferragosto, il risultato mi piace un sacco, i pantaloncini neri li tro­vo davvero eleganti. Non vincevo dall’8 ottobre 2017, questa stagione fi­no all’Europeo era stata da dimenticare. Me ne sono capitate di tutti i colori. La frattura di una costola in allenamento a gennaio, quella di una vertebra alla Roubaix ad aprile. Non ho mai dubitato di me stesso, un po’ però mi ero scoraggiato. Ma chi avevo intorno, dalla famiglia al “Quinzia” (il procuratore Manuel Quinziato, ndr), ci ha sempre creduto quasi più di me. Ho passato mesi da incubo: le conseguenze della caduta di Roubaix sono state pesanti, sono stato 40 giorni senza toccare la bi­cicletta, è stato l’infortunio più brutto che abbia mai avuto, ma questa vittoria cancella tutto».
Ritorniamo a quel giorno.
«Ho iniziato a pensare al Campionato Europeo il giorno dopo della Roubaix. Volevo dare una svolta alla stagione. Riuscirci quattro mesi dopo la caduta è un traguardo molto importante. Mi aspettavo di far bene perché avevo una buona condizione, in fondo era il pri­mo obiettivo che mi ero prefissato da quando mi ero rotto, ma allo stesso tempo avevo qualche timore perché sono stato a lungo lontano dalle corse a causa di un infortunio brutto (praticamente lo stesso di Nibali, conseguenza della caduta sull’Alpe d’Huez, ndr). È stata dura soprattutto quando ho ricominciato a pedalare: se salivo sui rulli stavo male, se uscivo in bici anche solo per un’ora stavo male. In quel mo­mento è stato fondamentale avere chi mi spronava ad avere pazienza, che tut­to si sarebbe sistemato. Questo traguardo è la prova che non bisogna mai mollare e credere sempre ai propri sogni».
Cosa hai pensato negli ultimi chilometri di gara?
«Alla gara e basta. Allo sprint temevo Van der Poel perché le volate che ha fatto le ha praticamente sempre vinte, aanche al campionato nazionale si era messo alle spalle atleti di spessore. Quando però né lui né Van Aert si so­no mossi sull’ultimo strappo ho capito che a quel punto le gambe erano quelle che erano per tutti, quindi mi sono concentrato solo sul mio sprint, su quando partire e come disputarlo. La gara è stata dura e imprevedibile come un ciclocross e senza una Nazionale fantastica non ce l’avrei fatta. Abbiamo voluto correre sempre nelle posizioni di testa perché non volevamo rischiare. Così è stato. C’è stato un attimo di tentennamento a pochi chilometri dall’arrivo con la caduta, che in fin dei conti ci ha addirittura favorito. Mi so­no girato e ho visto che anche Davide era riuscito a stare “in piedi”. Con lui, già prima della caduta innescata da Lammertink, avevamo deciso che sa­rebbe andato all’attacco, come ha fatto, per far uscire il migliore e valutare poi come agire. Non abbiamo sbagliato nulla».
E sul podio, sentendo l’inno di Mameli la testa dove è andata?
«A tutto quello che è stato prima: al­l’anno iniziato malissimo, con un infortunio in allenamento; alle classiche nelle quali non sono riuscito a portare a casa niente; al secondo infortunio pesante in cui sono incappato; alla voglia di riscatto che mi ha portato fin lì. È stato veramente bello, nella folla c’erano sparsi tanti italiani che cantavano, mi sono emozionato».
Tagliato il traguardo hai subito abbracciato Cimolai. Per tanti anni tu hai fatto il gregario, sai quanto vale il suo sacrificio...
«Cimo è stato eccezionale, ha corso bene, come tutta la squadra. Lui è stato la ciliegina sulla torta, ma fin dal via ognuno ha fatto quello che doveva al cento per cento. Credo che siamo l’unica squadra ad aver completato la corsa in sei, siamo stati forti e abbiamo corso bene. Nessuno o quasi ne ha dato risalto, guardate ai nostri anni di nascita: il più “vecchio” in squadra era Guar­nie­ri, che è del 1987, Ballerini del ’94 era invece l’unico pollastrello giovanissimo, gli altri erano tutti ragazzi nati nell’89 o nel’90. Siamo un gruppo coe­so perché ci conosciamo da un sacco di tempo. Nelle ultime stagioni siamo cresciuti parecchio, sembra proprio che questo sia il momento della nostra ge­nerazione per giocarsi le gare che contano. Speriamo duri a lungo».
Come avete festeggiato?
«Siamo usciti alla sera, ma abbiamo im­parato che in Scozia vanno a letto presto (sorride, ndr). Avevamo prenotato il ristorante per le 21, abbiamo giusto fatto in tempo a mangiare un piatto prima che la cucina chiudesse e alle 22.30 eravamo già di ritorno in hotel. Purtroppo vista la data della corsa Elia (Viviani, ndr) e Cimo sono do­vuti andare via già nel pomeriggio, avevano altre gare che li aspettavano. Per ora abbiamo festeggiato sobriamente, finita la stagione ci rifaremo. L’im­portante era stare insieme e goderci il momento».
A casa saranno impazziti di gioia.
«Sì perché sanno quanto è stata dura. Claudia (la compagna Morandini, ex azzurra di sci, ndr) ha seguito la corsa in tv con Giacomo (3 anni e mezzo) e Jacopo (4 mesi). Giacomo negli ultimi tre chilometri non ha fatto altro che ripetere: “Papà campione d’Europa. Papà campione d’Europa”. E quando sono tornato a casa il giorno dopo mi ha sfidato in una gara in bici, visto che finora non l’ho mai battuto. “Se vinco prendo io la medaglia” ha detto. La dedica è stata in primis per loro tre, per i miei genitori, i miei suoceri e tutti coloro che sono al mio fianco, indipendentemente da quanto forte vado in bici».
Con l’arrivo di Jacopo la famiglia si è allargata...
«Ho scoperto che con i bambini uno più uno fa undici... battute a parte è bellissimo. La maggior parte del lavoro se lo sobbarca Claudia, soprattutto ora che io ho ripreso a girare il mondo per la­voro. Jacopo è molto bravo, è già un gi­gante e ci fa divertire un sacco. Tornato a casa da Glasgow avevamo in programma il suo battesimo, così abbiamo riunito la famiglia in Val di Fiemme e abbiamo avuto un doppio motivo per brindare».
Quando nel 2013 vincesti la tua prima tappa al Tour de France a Lione ti eri definito un ragazzo semplice, da zaino in spalla e via. Sei ancora così?
«Non sono certo cambiato. Nell’in­ver­no precedente avevo fatto un viaggio in Brasile... da solo. Nessuno dei miei amici voleva o poteva venire, così ho preso e sono partito. Certo, da quando sono papà la vita è un po’ cambiata, vedo tutto da un’altra prospettiva, ma potete ancora considerarmi un ragazzo alla mano. Nel tempo libero leggo perché mi piace tenermi informato. La mia rivista preferita è Internazionale. Una bella antologia di articoli di giornali e magazine stranieri che ti danno la bussola di quello che sta succedendo nel mondo. Io giro tanto, è importante sapere che cosa ti succede attorno. Quando sono a casa, a Montecarlo, nel tempo libero gioco e guardo i cartoni animati con i bimbi e trascorro più tempo possibile con Claudia. Ci siamo conosciuti a una partita del campionato di basket dell’Aquila Trento, lei si oc­cupava di pubbliche relazioni. Avere al mio fianco una persona che ha praticato sport ad alto livello aiuta».
Come sfrutti quanto hai imparato per prendere la laurea in Scienze Motorie nel tuo lavoro?
«Sono scrupoloso negli allenamenti e uso al meglio i dati rilevati dal misuratore di potenza. L’evoluzione nel no­stro sport esiste, bisogna rimanere sempre al passo. La bici mi diverte come quando l’ho scoperta da bambino, mi piace usarne di ogni tipo. A Livigno prima dell’Europeo mi sono allenato con quella da strada e da crono, ma ho provato anche la mountainbike e la downhill, con tutte le precauzioni del caso ovviamente. E d’inverno mi diletto nel ciclocross perché mi fa bene e amo fare quello che facevo una volta, ritrovare vecchi amici e un ambiente semplice. L’amicizia esiste in questo mondo, lo ha dimostrato anche l’ultima missione della nostra Na­zio­nale. Il ciclismo è l’unico sport che ti dà la possibilità di allenarti insieme ad un avversario per tutta la settimana, an­che se la domenica poi ti “cartelli”».
Come è stato l’impatto con il nuovo team?
«Non ho notato particolari differenze passando da un gruppo belga a uno au­straliano. Alla Mitchelton Scott sono stati molto bravi, mi hanno preso per essere il leader nelle classiche e, anche se i risultati non sono arrivati, non mi hanno mai messo pressione. Quando mi sono infortunato sono stati comprensivi, tutto il personale ha lavorato per farmi tornare al meglio. Questo titolo ripaga i sacrifici, oltre che della mia famiglia, anche della squadra, che ha saputo aspettare e mi ha dato il tempo per guarire. I dottori mi avevano avvisato: più aspetti a risalire in bici e guarisci bene, meglio sarà per la tua vita, non solo da atleta. Nel team l’hanno capito e non mi hanno messo fretta».
Un anno fa alla Vuelta facesti poker di tappe, da questa edizione cosa ti aspetti?
«Il 2017, in termini di risultati, è stato il mio anno migliore. Questa stagione finalmente ha svoltato, sono fiducioso. Voglio continuare a far bene, questa nuova maglia è uno stimolo in più. In Spagna l’anno scorso fu tutto perfetto, quando fai qualcosa di ottimo è difficile ripetersi, ma voglio provarci. Sup­por­terò i fratelli Yates in chiave classifica generale, ma nelle tappe pianeggianti avrò libertà d’azione. Poi? Il calendario è ancora fitto di appuntamenti. Probabilmente mi toccherà andare in Cina per il Tour of Guangxi quindi sarò in bici fino almeno al 21 ottobre. Ho perso tante gare nella pri­ma parte di stagione, devo recuperare. Le vacanze sono ancora lontane».
Fatiche da supereroe.

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