PROFESSIONISTI | 01/04/2017 | 07:46 Il rimpianto è anche una corsa che si sarebbe voluto vincere e oggi magari ricorrere. Come nel caso del Fiandre, per Giuseppe Saronni, uno dei corridori italiani più prolifici di sempre, secondo solo a Moser: 273 il trentino, 193 il lombardo.
Per Beppe, il Fiandre che si correrà domani (edizione numero 101, 259 km, torna il Grammont, ndr) è una di quelle corse alle quali non ha mai dato troppo peso ma oggi gli pesa: non averlo mai vinto.
«È proprio così, oggi capisco di aver fatto una sciocchezza. L’ho corsa tre volte e sempre con l’approccio sbagliato, di chi aveva il dovere di correrla ma in testa aveva altro, come le Ardenne: Freccia (vinta nell’80, ndr) e Liegi su tutto – dice il team manager della UAE Emirates, la formazione araba per la quale corrono tra gli altri Diego Ulissi e Sacha Modolo -. Eppure anche il Fiandre, a ben pensarci, era adattissimo a me. Solo che quelli erano anni particolari, in corsa si facevano cose che fortunatamente da anni non si fanno più…».
In che senso? «Si correva e si corre ancora oggi con il coltello sotto la sella, ma ai miei tempi, quando si arrivava ad affrontare il Koppenberg , uno dei muri simbolo del Fiandre, autentico spartiacque della corsa, lì succedeva di tutto».
Cosa in particolare? «I big, quelli che avevano ambizioni di vittoria, puntavano quel muro nelle primissime posizioni: non più indietro della quindicesima posizione. Mentre i loro gregari, posizionati appositamente alle loro spalle, ad un certo punto facevano finta di piantarsi su quei muri impervi e scendevano di bicicletta. Insomma, su una mulattiera, se scendi di bicicletta e ai lati non ci sono vie di fuga, fai l’effetto tappo, agevolando in questo modo loro: i capitani, che se ne andavano via indisturbati».
Mentre tutti gli altri restavano lì imbottigliati, te compreso. «Esattamente».
Avresti dovuto però affrontare il Koppenberg anche tu con i migliori, nelle prime posizioni. «Dici bene, ma vorrà pur dire qualcosa il fatto che per un certo periodo questo muro non è stato più affrontato? Oggi vanno tutti su in sella alle loro bici, non fanno più i furbi».
Stai dicendo che ai suoi tempi eravate molto più carogna di oggi. «Esatto».
Oggi sei il general manager di uno dei team più forti del mondo, che ha convinto investitori arabi ad entrare nel ciclismo. «È forse una delle mie vittorie più belle. Dopo venti e più anni al fianco della famiglia Galbusera (titolari della Lampre, ndr), ho avuto la fortuna di trovare dei grandi investitori che mi hanno dato fiducia e permesso di salvare una squadra di livello e con essa più di 70 famiglie. Sono entrati capitali importanti dagli Emirati Arabi Uniti, con sponsor del calibro della Emirates. La nuova sede è a Magnago (Milano), la struttura è molto italiana (anche le biciclette sono tricolori: quelle di Ernesto Colnago, ndr) dovremmo diventare sempre più internazionali, ma quello che più interessa ai nostri investitori è che dovremo vincere: e tanto. Siamo partiti discretamente bene, con Rui Costa (3 vittorie) e Ulissi (una), ma il difficile arriva adesso».
Domani il Fiandre: poche ambizioni per noi italiani. «Per quanto ci riguarda abbiamo corridori esperti come Sasha Modolo e Marco Marcato, e anche giovani interessanti come Simone Consonni, che su questi muri, nonostante sia giovanissimo, ha già dimostrato di saperci andare molto bene. Anche Oliviero Troia è all’esordio, mentre Federico lo affronta per la seconda volta, dopo essere arrivato 104esimo un anno fa. Però è giusto non farsi illusioni: Sagan, Van Avermaet, Boonen, Kristoff o Gilbert mi sembrano di un altro pianeta».
Quindi poche le speranze tricolori. «Attenzione a Gianni Moscon: è un ragazzo di assoluto talento, bisogna solo lasciarlo maturare con calma. Penso possa fare una buona corsa anche Alberto Bettiol mentre non bisogna mettere pressione a Sonny Colbrelli che affronta questa corsa per la prima volta in carriera».
Come mai il nostro movimento fa così fatica. «C’è in atto un importante cambio generazionale, bisogna anche avere un po’ di pazienza. Greg Van Avermaet, campione olimpico in carica e grande cacciatore di classiche del nord, è esploso a 29 anni. In certe corse, quelle vere, sopra i 200 km, bisogna avere forza, resistenza ed esperienza. Per questo dico sempre che bisogna tornare a corse con i chilometraggi di un certo tipo. Se vogliamo tornare a veder vincere i grandi corridori, ci vogliono corse dure e selettive, oltre i 250 km. Il ciclismo democratico non dà spettacolo, ma crea solo illusioni».
Ci vorrebbero più Sagan. «Più Sagan, più Contador e anche più Nibali: tutti atleti che sanno inventare e incendiano le corse con la loro fantasia».
Se fosse presidente dell’Uci, l’organismo mondiale del ciclismo, cosa farebbe? «Rivedrei l’attribuzione dei punti. Le classifiche individuali, il ranking delle squadre, condizionano troppo le corse. C’è chi punta a fare punti piuttosto che vincere le corse».
Torniamo al Fiandre: chi lo vincerà? «Faccio solo un nome: Peter Sagan».
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