L'ORA DEL PASTO. MARCELLI IL GIGANTE

STORIA | 06/01/2017 | 08:11
Vittorio e Peppino. Non è un film, ma ciclismo, anche se potrebbe essere un film sul ciclismo. Vittorio, grande e grosso, fortissimo. Peppino, un po’ meno grande e un po’ meno grosso, ma forse più veloce. Vittorio marsicano di Magliano, settecento e passa metri ai piedi del Monte Velino, Peppino pescarese, aria di mare, sale e pesce. Un anno in più Vittorio. E tutti e due corridori. Due galletti in un solo pollaio.
Dunque: guerra. Ogni corsa è una sfida, un duello, un derby. Ogni corsa ha due ordini di arrivo: quello generale e quello speciale, in quello generale compaiono tutti gli arrivati, in quello speciale solo Vittorio e Peppino. Ogni corsa divide il popolo del ciclismo. Ogni corsa non spegne gli ardori, ma anzi moltiplica la passione e ingigantisce l’attesa per la successiva puntata.

C’è addirittura una corsa in cui Vittorio e Peppino si marcano così strettamente che ogni volta che Vittorio scatta, Peppino va a riprenderlo, e ogni volta che Peppino contrattacca, Vittorio va a chiudere, così che alla fine ad andare in fuga è il gruppo, Vittorio e Peppino continuano a controllarsi finché, quando la corsa è ormai terminata da 40 minuti, si disputano – ferocemente – allo sprint il penultimo e l’ultimo posto. E tutta la gente è rimasta ancora lì ad aspettarli, come se quella volata valga per il primo e il secondo posto. Nella circostanza, i due nemici si dispongono uno sulla destra e l’altro sulla sinistra del viale di arrivo, poi Vittorio batte Peppino e i suoi tifosi lo festeggiano come se abbia trionfato al Mondiale.

Vittorio è Marcelli, Peppino è Scurti.
Incontro Vittorio Marcelli a una festa del Panathlon di L’Aquila, organizzata da Renato Palumbo. E lui mi racconta della sua prima bicicletta, una Fiorelli-Coppi grigia, che apparteneva a un ragazzo di Avezzano che aveva smesso di correre, pesava così tanto che non era stata neanche omologata, e c’era anche da far saldare il canotto della sella. E lui mi racconta che dopo la quinta elementare andò a lavorare, e fino a 15 anni lavorava ai mercati e in un emporio, e poi era nelle mani di Richetto Eboli, che prima aveva aiutato Vito Taccone e poi si era occupato di lui, ne aveva intuito le doti, e per farlo correre lo prendeva e lo riportava a casa. E lui mi racconta di una delle prime corse in cui, pronti via, forò una gomma, cambiò il tubolare e poi tutto il giorno fu costretto a inseguire, e all’arrivo era così cotto che abbracciò un alberello. E lui mi racconta di quando correva nel quartetto azzurro della cento chilometri – oro ai Giochi del Mediterraneo 1967, due bronzi ai Mondiali 1967 e 1968 e bronzo all’Olimpiade 1968 -, e il c.t. gli raccomandava di non andare troppo forte, altrimenti avrebbe staccato i compagni. E lui mi racconta degli anni da professionista, solo due, Sanson e Salvarani, e a singhiozzo, perché lo volevano gregario, ma lui, a cominciare dal nome, Vittorio, gregario non poteva esserlo, soprattutto dopo i trionfi al Giro d’Italia dilettanti 1967, alla preolimpica 1967 e al Mondiale dilettanti 1968, piuttosto avrebbe attaccato la bici al chiodo, cosa che fece, a 25 anni.

Adesso Vittorio Marcelli abita ad Avezzano e ha un negozio di biciclette in una via che per lui suona come un rimpianto: Olimpiadi.

Marco Pastonesi
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