TUTTOBICI | 28/04/2016 | 07:53 Abbiamo sempre pensato che non ci fosse nello sport, e in fondo nella parabola quotidiana, qualcosa di meno distante dal concetto di morte, dalla “fine”, come il ciclismo.
Già, quel ciclismo che nasce con la primavera, con il primo sole lungo. La morte di un ciclista, per mano o guida altrui, l’abbiamo sentita sempre come una offesa proditoria: da Caino ad Abele, anche se nel nostro mondo in corso nessuno salva quell’Abele così poco modaiolo. (Se non, sfigatamente, noi...)
E così avevamo indossato lo spirito giusto, prima di Pasqua, per scrivere una volta ancora contro quei Suv omicidi, che deturpano i panorami di uno stolto status symbol e investono tante volte i ciclisti probi. I Suv che uccidono, e non solo i ciclisti illibati certo, ancor più se guidati da ottantottenni come accaduto di recente in Spagna, o da donne arrembanti, vedi la settimana scorsa sulla Aurelia, a Roma.
Avevamo lo spirito giusto, vagamente alla Girolamo Savonarola, quantunque ci appartiene più la levità di un ultras buonista che non la tempra di un censore accidioso, perché del dissidio fra Suv truci e biciclette trasparenti sulle strade non se ne può (davvero) più. In un confronto dispari, dove il campo di gioco è unico ed il perdente già noto alla partenza.
Avevamo lo spirito giusto, per scendere in campo a difendere il Ciclista giusto dalle Morti ingiuste - pur con la consapevolezza che una morte equa non esista ancora nella vita - patite sulla strada e sulle strade che percorriamo abitualmente.
Ecco, ci ponevamo al proposito, questa domanda, come ciclista e anche come utente della strada in abiti diversi. «Ma sono abilitate le nostre strade provinciali, e anche le nazionali, a ricevere il passaggio, se non degli aborriti Suv, di quei Tir rutilanti che le percorrono abitualmente sfrecciando al di sopra degli 80 km/ora?». E c’è un criterio oggettivo che ne valuti la transitabilità, di fronte ad autotreni il cui ingombro spesso oltrepassa la linea di mezzeria? E non ditemi di aver visto pattuglie di Polizia pronte e attrezzate, in trincea, col il tachimetro de visu, a fermarli...
Non so se qualcuno se lo sia mai chiesto. Ma le carreggiate delle nostre provinciali, tracciate negli anni ’60 per utilitarie e berline, dopo aver ospitato anche i carri agricoli e i trattori - penso all’Appia o alla provinciale della Stazione di Sessa Aurunca, dalle mie parti - sono davvero per leggi della dinamica e per Codice della Strada tarate per il traffico dei long vehicles oltremodo veloci? O anche per i Tir, lasciamo stare i Suv che altrimenti ci linciano o ci asfaltano, ci vorrebbero corsie preferenziali, giusto come le piste per i ciclisti? Senza dover ricorrere, pietosamente, alla sanzione dissuasori dell’omicidio stradale, introdotto qualche giorno fa nella nostra giurisprudenza.
Di questo volevamo esclusivamente scrivere, e continuare, con la lancia ulteriormente in resta. In bicicletta non si può morire, investiti, e dando beninteso per scontato il rispetto proprio delle norme, certo. Ma non si può, al di là dei cicloamatori vittime dei Suv e dei Tir, tantomeno ed ancor più finire i propri giorni in bicicletta come è stato per Daan Myngheer, il ragazzo belga della Roubaix Lille Metropole, vittima di un “infarto” in corsa il sabato di Pasqua, al Criterium International e morto due giorni più tardi.
Perché la tragedia di Myngheer impone purtroppo al mondo e ai benpensanti del ciclismo una confessione intima, se non una condanna, almeno tripla. Se è vero, come è vero, che il corridore belga già aveva accusato nel 2014 un malore “cardiologico”, in corsa. E che ciò nonostante, sulla scorta di nuove verifiche cliniche - quanto approfondite? -, gli fosse stata nuovamente concessa la licenza agonistica. Come a Fabrice Salanson, morto nel sonno, nel 2003, senza ricordare pure Alessio Galletti ... Ma quanto approfondite, ci ri-chiediamo, conoscendo la straordinaria qualità della diagnostica cardiologica attuale, queste verifiche? E se è fatalmente malinconico morire per la velocità idiota di un Suv, è davvero intollerabile finire a 22 anni solo per la superficialità imprudente, fatta salva la buona fede, di un medico.
E certo, quando ci si salva è grazie al buon Gesù e quando si muore è sempre colpa del medico. Posto che non ho gli elementi per giudicare se effettivamente si possa riscontrare un errore medico in questo caso, la frase in questione (\"intollerabile finire a 22 anni solo per la superficialità imprudente di un medico\") suona come una gravissima diffamazione in assenza di prove che testimonino una evenienza del genere. Porreca, ci mostri tali prove o altrimenti rettifichi all\'istante quella frase.
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