
Il ciclismo sbocciò, in Eritrea, nel 1938, e fiorì negli anni Quaranta. Nel 1946 fu organizzato il primo Giro dell’Eritrea: cinque tappe, di cui una molto impegnativa che attribuiva uno speciale Premio della montagna, 34 corridori secondo Wikipedia, 46 secondo Mazzola, vittoria finale dell’italiano Nunzio Barilà della squadra A.C.Piemonte. Si dice che al via ci fossero solo corridori italiani, ma Mazzola spiega che c’erano anche corridori di altre nazionalità, compresi gli eritrei: “Ma i corridori italiani sembravano i più forti. Oltre ai fratelli Barilà, anche Carlo Bonetti, e poi Zanetti, D’Alessandro, Lopez. Alcuni di loro erano nati in Italia, altri in Eritrea da italiani, come me. Trentacinquemila furono, durante quegli anni, i figli di italiani nati in Eritrea. E per sapere di ciclismo, di Bartali e Coppi, noi leggevamo ‘La Gazzetta dello Sport’. Arrivava con qualche giorno di ritardo, come un’eco di vittorie e sconfitte, di fughe e inseguimenti”.
Nel 1947 il Giro dell’Eritrea non poté disputarsi a causa della guerriglia, scoppiata dopo la fine della colonizzazione italiana, con le truppe britanniche, e non sarebbe tornato che nel 2001. Ma il ciclismo continuò, nella sua semplicità, anche nella sua ingenuità. Mazzola racconta che “le bici erano fabbricate ad Asmara, l’abbigliamento era di lana, i rifornimenti a base di banane, “la bomba” era un cocktail di caffè e rum, e alcuni si raccomandavano che l’acqua venisse usata solo per bagnarsi le labbra, i premi erano in denaro, coppe, targhe e medaglie, ma anche – e con maggiori ambizioni - in galline e caprette”.
Campione eritreo nel 1959 fra i dilettanti, Mazzola puntò alle Olimpiadi di Roma del 1960: “Guadagnai la convocazione, la squadra era formata da me, da un altro eritreo di Asmara e da due etiopi, perché l’Eritrea era federata all’Etiopia. Il viaggio, Roma, il villaggio olimpico: la mia prima volta in Italia. Sembrava un sogno. Fummo iscritti a due prove: la corsa su strada e quella del quartetto della 100 chilometri. Ma non eravamo abbastanza preparati: abituati a correre fra di noi, non avevamo lo stesso ritmo e velocità. Nella corsa su strada ci ritirammo tutti e quattro, invece nella 100 chilometri arrivammo in fondo. Correvamo su quattro Legnano ordinate da un italiano che abitava ad Addis Abeba, un certo Conte, lavorava all’Agip, ma s’intendeva anche di ciclismo”.
Ma a Roma Mazzola visse comunque un giorno di gloria, anzi, una notte di storia: quella della maratona, vinta dall’etiope Abebe Bikila, a piedi nudi: “E all’arrivo c’ero anch’io a festeggiarlo, a celebrarlo, a sollevarlo al cielo”.
Quanto al suo ciclismo, Mazzola non si rassegnò, anzi, s’infervorò: aveva vent’anni. “E se ai Giochi di Roma non era andata bene, a quelli di Tokyo, nel 1964, sarebbe certamente andata meglio”. Si divise fra lavoro e ciclismo: “Mi specializzai nella sartoria su misura per uomo. Tornai in Italia, stavolta a Bologna, per un anno, per seguire un corso di taglio. Poi ritornai ad Asmara. Mi svegliavo alle quattro e mezzo, uscivo alle cinque, 150 chilometri di allenamento, da solo o con qualche amico, poi vinsi la corsa di selezione valida come preolimpica e così mi qualificai per la Nazionale. Ma non venni convocato. Chiesi spiegazioni. Mi risposero che ero già stato a Roma, e aggiunsero che a Tokyo sarebbe andato a qualcun altro. Come se l’Olimpiade fosse un viaggio regalato e non un traguardo conquistato. Fu una decisione sbagliatissima, e glielo dissi”.
Ma non ci fu nulla da fare. Mazzola, deluso, disse addio alla bicicletta. Ma non al ciclismo. “Perché il ciclismo era tutto. I miei sogni e le mie vittorie, i sacrifici e la fatica, ma anche i piaceri e le gioie, e poi le volate, la rimonta, lo sprint, infine il delirio della folla. Non avrei mai potuto rinunciarvi”.
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