TEKESTE, IL GIGANTE D'AFRICA. GALLERY

STORIA | 02/12/2015 | 07:44
L’aria fresca di Asmara non incontra la salsedine del Mar Rosso. A 2300 metri sul livello del mare, nel cuore della Regione Centrale, la brezza del mattino sa essere ruvida. Come quella che nel 1948 accarezza per la prima volta Tekeste, figlio di una terra che proprio solo un paio di anni prima aveva partorito anche il Giro di Eritrea, la più antica corsa di ciclismo del Continente Nero. C’è da pedalare, in Eritrea, per correre incontro al futuro. Per scaldarsi le gambe intorpidite dal clima mon­tano della Piccola Roma, come viene ribattezzata la capitale in epoca coloniale. «Ma non c’è stimolo più gran­de - per andare forte in bici - della paura. Quella che ti fa allontanare in fretta da un leone».
Tekeste Woldu oggi riposa su uno dei suoi divani, che in­sieme al figlio Davide realizza partendo dal niente in via Agostoni, a Lissone. Ha il sor­riso gentile di chi sa di es­sere scattato sulle strade di una vita in salita e di aver scollinato lasciandosi indietro affanni e fatiche. Tra poltrone e materassi ammassati senza ordine, spunta un al­tare agli dei del ciclismo.

Una foto con Gianni Motta, trofei e ritagli di giornale. La bicicletta non è mai uscita dalla sua vita. Oggi pedala, quasi tutte le mattine solo per piacere e gareggia nei campionati amatoriali con la pettorina della Tornaco, squadra del Novarese. In­sieme a lui c’è Federico Car­pac­cio, ul barbé. Compagno di allenamenti, gregario nel­la rincorsa ai ricordi di una vita. E primo aiutante quando si tratta di recuperare ve­stiario, componenti meccanici e ogni genere di assistenza da inviare in Africa. Asmara, ovviamente. Dove og­gi la Salotti Tekeste Lis­sone è una squadra di dilettanti che partecipa al Giro di Eritrea e riesce anche a lanciare nel ciclismo che conta qualche giovane di bel­le speranze. «Anche se i ciclisti africani devono im­parare la strategia di gara - spiega scettico Tekeste -. Ho conosciuto Ku­dus Merawi, eritreo come me, qualche anno fa alla Coppa Agostoni. È andato in fuga troppo presto, si è bruciato sul Colle Brian­za. Anche Tsabu Grmay è buon atleta, il primo etiope che ha partecipato al Giro d’Italia». Grmay annuisce, ricorda. Parla di Tekeste come il “Gigante”. È così che tutti lo chiamano, in Africa. Italianizzando e sublimando “gigna”, forte, con cui si è fatto un nome nei primi anni di gare.

In effetti Tekeste si accorge subito, appena monta in bici, che ha qualcosa in più degli altri. Corre, fatica, ma poi vince. L’Eritrea di quegli anni conta più di 25mila italiani, arrivati con l’invasione del 1936. Con gli italiani arrivano anche le biciclette e la passione per il ciclismo. Ad Asmara nascerà anche il quartiere Alfa Ro­meo. «Il più cattivo degli italiani è più bravo del migliore degli eritrei - dice Tekeste -. Lo dico sempre anche ai miei compaesani: Dio onnipotente avrebbe dovuto creare gli italiani e fermarsi». E dire che nel­la Bibbia si descrive l’incontro, avvenuto proprio ad Asmara, tra la regina di Saba e re Sa­lomone. Dalla loro unione nacque Menelik I, incoronato re. Sovrano che nella sua mo­narchica discendenza diretta, attraverso 225 ge­nerazioni, porta all’ultimo Re dei Re, Hailé Se­lassié. Negus neghesti d’Etiopia dal 1930 al 1936, poi dal ’41 al 74. Erede della dinastia salomonide e secondo il cristianesimo ortodosso etiope del rastafarianesimo niente meno che secondo Messia.

C’è proprio lui, Hailé Selassié, a mettere fine alla carriera di ciclista di Tekeste. «Avevo poco più di 20 anni, ero al culmine della mia carriera da ci­clista. A quei tempi l’Eritrea era assoggettata all’Etiopia e io ero già arrivato in Italia. Ven­ni convocato dal Re dei Re, ad Addis Abeba. Mi chiese perché fossi andato in Italia per correre. Secondo lui sarei dovuto rimanere in Africa, per rendere onore e merito alla mia terra. Non ebbi paura di lui, ma avrebbe po­tuto imprigionarmi. E chissà cos’altro. Ma mi cacciò e io tornai in Italia. Da quel giorno però smisi di correre».

Hailé Selassié pochi mesi dopo venne assassinato, ma per Tekeste fu una questione di onore. Nonostante questo, le Olim­piadi del 1972 in Germania Ovest, quelle del massacro di Monaco, le corse. Conquistando l’anno dopo in Nigeria la medaglia d’oro su strada ai Giochi olimpici africani, dopo 60 chilometri di fuga solitaria. Sempre a Lagos si mise al collo l’oro a squadre nella cronometro, ri­nunciando poi alla chiamata per i Gio­chi del 1976. Ma il punto di svolta nel­la vita del Gigante era avvenuto 10 anni prima. «In Eritrea correvo con la squadra Legnano, diretta da un im­prenditore italiano, il dottor Russo. Non ricordo il nome. Feci la trafila dagli Allievi sino ai Dilettanti e cominciai a vincere tanto. E mi proposero di venire in Italia per correre. Ma io avevo paura. C’era un tal Bianchi, di Olgiate Comasco, che per lavoro veniva spesso di Eritrea. Insisteva a sua volta per portarmi in Italia, ma io non ero pronto». Squadra Legnano, invito da Bianchi. Segni di un destino a pedali che doveva compiersi di lì a poco. «Facevo tanti circuiti, mi allenavo con diversi italo-eritrei. C’erano Giovanni Massola, Aurelio Giovanni, Carmelo Salimbeni, Piero Silvestro. Nessuno di loro passò professionista, ma grazie a loro ebbi modo di mettere in luce le mie qualità».

Nel 1968 le Olimpiadi sono a Città del Mes­si­co. Tekeste ci arriva con il suo ta­lento e i suoi timori di ragazzo mai uscito dall’Eritrea
. Si allena con gli italiani anche in Centro­ame­rica. Corre con Vianelli, Tino Conti, Pietro Di Caterina e Marcelli, che diventerà anche campione del mondo dei dilettanti. Ma ad an­dare forte, neanche a dirlo, è ancora Te­keste. Ricomincia l’opera di convincimento e alla fine il Gigante si convince. Ha 20 anni quando atterrà per la prima volta in Italia, spaesato e con l’incoscienza che solo i sogni sanno far sbocciare. Arriva a Olgiate Co­ma­sco, a casa di Bianchi, che cerca di procurargli una squadra. Ma non c’è niente da fare. Allora Tekeste fa qualche decina di chilometri e raggiunge Arcore, destinazione Mol­teni, la squadra che Giorgio Albani ha cominciato a costruire attorno a Eddy Merckx. «Sulla strada per Arcore mi trovai alla stazione ferroviaria di Peregallo, a chiedere indicazioni stradali. Il capostazione era un appassionato di ciclismo, mi offrì un caffè, ascoltò la mia storia. Poi mi portò in trattoria, ma a Villa­san­ta. C’era un alloggio e sapendo che io, da ci­clista in cerca di squadra, non avevo soldi, mi offrì da mangiare e dormire. Per sdebitarmi cominciai a fare il cameriere, continuando però a cercare una squadra».

Ancora un caffè, che in Eritrea ha una sua vera e propria cerimonia di servizio agli ospiti, cambia il destino di Tekeste. Guido Sironi della Società ciclistica Mobili Lissone, si fa servire una tazzina in trattoria e incontra il Gi­gante. E gli trova non una, ma due società disposte a farlo correre. La prima è il Pedale Monzese, in cui corre anche Alberto Casini, nato ad Asmara e arrivato in Italia a 18 an­ni. L’altra è proprio la Mobili Lisso­ne, fondata nel 1946 e legata alla Coppa Ugo Agostoni. «La­sciai un mio paesano come Ca­sini e scelsi la Mobili Lissone - ricorda Tekeste -. Il presidente Aurelio Sironi fu per me un fratello e un padre. Mi diede ve­sti­ti, una casa. Una persona meravigliosa, a cui devo tutto. Fin­ché Dio mi darà la vita, lo ricorderò». Gli ami­ci di quegli anni sono Gianni Valtorta, Luigi Pa­gani. Per il Gi­gante c’è sempre un posto a tavola. Arrivano le vittorie, la partecipazione al Giro d’Italia e alla Vuelta de España dilettanti. Una decina di successi in tutto, l’ultimo traguardo a braccia alte a Seveso. Adriano De Zan lo intervista in tv, conosce Francesco Moser, gli propongono dei contratti da professionista. Il futuro è nelle sue mani. Sino alle medaglie dei Giochi olimpici africani e all’incontro con il Re dei Re, che segna la fine. Solo più avanti, da amatore, si concederà due successi nei Campionati italiani a cronometro.

«Ma io mi accontento di poco, è più bello dare che ricevere. Dal 1993 ho la squadra in Eritrea, qualche ragazzo ci dà delle belle soddisfazioni. Come Natnael Berhane, che ha vinto anche un Giro di Turchia e tappe al Giro di Algeria. Invio biciclette anche in Sudan, ma non lo faccio per guadagnare. Per me la bicicletta è amore». Un amore Gigante.

Stefano Arosio, da tuttoBICI di Novembre
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COMMENTI
Teke il Grande
2 dicembre 2015 21:33 pagnonce
Come non posso non salutarti tutte le volte che ti incontro ad una gara nel Novarese.E tu' tutte le volte mi saluti con entusiasmo di vero appassionato del grande ciclismo.Sei veramente ok ciao Teke tuo amico velocista.

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