IL PASTO IN RWANDA. Poliumberto, ciclista col diabete

STORIA | 16/11/2015 | 07:02
Lo guardano, lo salutano, lo assediano, lo cercano, lo toccano, gli sorridono, gli stringono la mano, gli corrono dietro. E neanche immaginano – bambini, ragazze, uomini – che è italiano: l’unico corridore italiano qui al Tour of Rwanda.
Umberto Poli: 19 anni, 1,68 per 61, dorsale 41. Veronese di Bovolone. Papà informatore medico, mamma insegnante di musica, lui terzo di tre figli maschi, famiglia sportiva, ma lui l’unico a fare dello sport la propria vita.

Da piccolo, la bici era un modo per stare insieme al mio migliore amico. La prima a sei anni, o vincevo o arrivavo fra i primi tre, forse troppo, e così, perché il papà non ci finisse troppo dentro, la mamma mi ha tirato fuori. E allora: tennis, judo, calcio, basket. Ma la passione mi pedalava dentro finché, a 12 anni, ho chiesto scusa, ma io alla bici e al ciclismo non volevo proprio rinunciare. E siccome il mio primo allenatore, Lino Scapini, abitava a 200 metri da casa, e ogni volta che mi vedeva passare mi ricordava che ‘ho la bici pronta per te’, e mi domandava ‘quando vieni?’, un giorno sono andato da lui ed era vero, la bici era pronta per me, e io per lei, e ho ricominciato”.

Se la vita è una corsa a tappe, quella di Umberto ha una prima tappa con due argenti – inseguimento individuale e a squadre su pista – ai campionati regionali, una seconda con tanti piazzamenti da allievo e tante fughe da junior, una terza con l’amicizia con Attilio Viviani (il fratello minore di Elia) e il legame con Remo Cordioli (l’allenatore), poi un tappone con la scoperta di avere il diabete di tipo 1.

Non sapevo neanche che cosa fosse. Ma avevo dolori alla pancia e alla schiena, non riuscivo a dormire né a bere, quando andavo in fuga ero costretto a fermarmi perché non spingevo più. Esame, ricovero, cura. Una fortuna. Perché la bici e il ciclismo potevano rientrare nella cura”. Ed ecco altre tappe: quella della rinascita, quella del contatto con la Novo Nordisk, squadra composta soltanto da atleti diabetici, il primo raduno in Veneto, il secondo negli Stati Uniti, il terzo in Spagna, poi le corse, da cittadino del mondo. “Il Giro del Galles: nonostante pioggia e freddo mi sono divertito da matti. I criterium in America: non proprio la mia specialità, ma c’è sempre da imparare. Le corse sui Pirenei: tutte le salite storiche del Tour de France. Adesso in Ruanda: un altro mondo che mi si apre”.

Poli, scuola alberghiera e specializzazione da cuoco, confessa che vorrebbe diventare “un passistone alla Cancellara”, spiega che “la bici è compagnia e liberazione, sfogo e ricarica”, sostiene che “a pedalare sono le gambe, ma a viaggiare è la mente”, aggiunge che “i paesaggi da esplorare sono quelli terrestri, geografici, ma anche quelli psicologici, umani”. Precisa che “il fascino della bici sta nel sacrificio”, cioè l’etica, “e nelle linee”, cioè l’estetica. Non ha la fidanzata (“Dovrebbe sapere, capire, comprendere che noi corridori siamo fatti così, speciali”), ma ha fede (“Credo in Dio, anche se non vado più in chiesa”) e fiducia (“Quanti anni spero di correre? Tanti”). Cerca la perfezione, almeno in bici (“Fino a diventare un tutt’uno, fuori neanche di un millimetro”), fatta di cure, attenzioni, intimità (“Due o tre volte la settimana me la lavo, due o tre volte la settimana me la porto dal meccanico”), perché è convinto che sia giusto così (“Chi non sa prendersi cura della bici, non sa prendersi cura neanche di sé. E viceversa”).

Il cronoprologo non è il suo forte, e Umberto lo sapeva: 48° (su 69) a 35”32 dal ruandese Jean-Bosco Nsengimana. “Ho voglio di vedere, scoprire, esplorare. Darò l’anima. E quello che verrà, verrà. Non sono di quelli che vogliono tutto e subito. Io do tanto e pretendo tanto. Ho sofferto di nostalgia, ho dormito sui divani, mi emoziono, fatico a parlare in inglese. Ma tengo duro. Prima o poi qualcosa mi tornerà indietro”.

Marco Pastonesi


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