LAPPARTIENT. «Il ciclismo deve cambiare»

POLITICA | 21/09/2015 | 07:35
Chiamarlo enfant prodige significherebbe non rendergli me­ri­to. Non c’è casualità, o non solo, in un uomo che a 42 anni governa il suo mondo. E che non si accontenta di farlo, ma guarda oltre per cercare traguardi che al momento solo lui immagina. David Lappartient non abbassa lo sguardo, sa dove vuole arrivare e cosa vuole dire. È sindaco di Sarzeau, paesino della Bretagna, che lo scorso anno lo ha scelto con percentuali bulgare. Gli impegni non lo spaventano: è membro dell’Ump (Union pour un mouvement populaire), consigliere generale del Morbihan, presidente del­la Comunità dei Comuni di Rhuys e del parco regionale del Golfo di Mor­bi­han. Tante spille al petto, ma nessuna solo per etichetta. La politica non ha ad­domesticato l’audacia delle sue parole. Ascolta, riflette. Ma se c’è da parlare chiaro, Lappartient lo fa. Forse an­che per questo oggi è, soprattutto, presidente dell’Unione europea di ciclismo, presidente della Federazione ciclistica francese e vice di Brian Cookson all’Uci, l’Unione internazionale di ci­cli­smo. Ovvio pensarlo con le mani sul manubrio del ciclismo mondiale, in un futuro non così lontano: «Ho molti incarichi, è vero. Ma la presidenza dell’Uci non è un tema di oggi, non so più in là».

La sua carriera nel ciclismo che conta è iniziata presto, molto presto. A 24 anni è presidente del Velo Sport Rhuys e membro del consiglio della Federa­zione francese. Deve attendere solo di ta­gliare il traguardo dei 32 per es­sere eletto nel comitato direttivo dell’Uci. Da quel momento la strada sarebbe potuta essere in discesa, ma Lap­par­tient sceglie comunque di continuare la scalata. E oggi studia e parla come se già le sorti delle due ruote a pedali dipendessero da lui.

«Dove va il ciclismo? Una bella do­manda», soppesa come se do­vesse studiare una risposta che, in realtà, nella sua mente è già molto chiara. «Il ciclismo ha più di un secolo di storia e noi questo lo dobbiamo rispettare. La Milano-San­remo, la Parigi-Roubaix, il Giro d’Ita­lia e il Tour de France sono il ciclismo. E non dobbiamo dimenticarlo. Ma credo sia importante partire da qui per poi sviluppare un ciclismo nuovo, orientato anche verso altri Paesi, dove ci sono disponibilità economica e interesse nell’ospitare gare. Non c’è contrapposizione in questo, al contrario credo che debba nascere un nuovo connubio. Le gare storiche sono, ovviamente, tutte in Europa. Ma i mercati più freschi sono altrove. E noi abbiamo bisogno di portare il ciclismo ovunque, esattamente come abbiamo bisogno di valorizzare la nostra storia».

Nessuna dicotomia, Lappartient per dimostrarlo lancia una provocazione.
«Chiedete a Vincenzo Nibali cosa preferisca vincere. Risponderà Tour de Fran­ce, Giro d’Italia o Milano-San­remo, ad esempio. E questo non verrà mai meno. Quindi non vedo rischi nell’esplorare nuove destinazioni e portare le gare altrove. Non si corre alcun pericolo, se è questo quel che preoccupa qualcuno…».

Ma le questioni, nella stanza dei bottoni del ciclismo internazionale, sono tante e differenti tra loro. Anche se per il presidente Uec sono comunque tutte interconnesse tra loro: il comun denominatore è la sostenibilità economica. Esemplificativa è la querelle dei diritti tv e della spartizione dei loro proventi.
«Non è una faccenda così facile, durante il Tour il problema è stato più volte tema di discussione. Proprio per questo dobbiamo trovare una soluzione. Capisco i team quando chiedono maggiori sicurezze e tutele per il futuro, ma non è gestendo in maniera differente i diritti delle grandi competizioni che si può trovare il compromesso migliore. Non credo si debbano avere gruppi di­stinti di team e una differenziazione tra loro. Penso anzi che il dibattito debba essere spostato su un altro piano. La competizione non deve essere interna, ma con gli altri sport: dal basket al calcio e al tennis, per citarne alcuni. Dob­biamo promuovere il ciclismo come si­stema globale e per questo si deve la­vorare tutti insieme. Non serve che una parte tragga vantaggio a discapito di un’altra, perché così facendo si rischia di andare a fondo tutti insieme, prima o poi. Occorre elaborare un mo­dello in cui ciascuna parte cerchi di trovare un proprio legittimo equilibrio, ma all’interno di un progetto che porti un beneficio comune».

Anche perché, a voler ben guardare, se­condo il vicepresidente dell’Uci il mon­do del pedale ha in sé un’altra grande anomalia nelle modalità di gestione economica.
«La specificità del ciclismo è quella degli sponsor, che rappresentano direttamente le squadre, a partire dal nome. Non avviene così nel calcio, ad esempio: se domani i main sponsor di Milan o Juventus se ne dovessero andare, le due società rimarrebbero comunque ta­li senza perdere la loro identità. Da noi non è così e questa differenza nel no­stro sport è molto significativa. E ga­ran­tisce innanzitutto una grande op­portunità proprio per gli sponsor. So­no convinto che il ciclismo offra il miglior ritorno possibile a un in­vestitore, anche in confronto a ogni altra disciplina».

Pure in questo caso un esempio vale su tutti i ragionamenti.
«Ed è quello della Eu­ropcar, che nel 2011 ha deciso di investire 4 mi­lioni di euro. Una quota considerevole, ma che ha garantito al brand un ritorno incredibile con i successi  di Tho­mas Voeckler. In altri sport non penso sarebbe stato possibile ottenere un ritorno tanto importante».

Se i soldi ci sono, insomma, oc­corre trovare il modo appropriato di gestirli. Anche nei rapporti tra le fe­derazioni internazionali e gli organizzatori locali.
«Il punto di partenza deve essere una sintonia tra i dirigenti. L’Uec e le federazioni - e so che il presidente Uci è perfettamente d’accordo con me su questo tema - non devono arricchirsi, ma limitarsi a fare da cornice al mondo di ciclismo. Le federazioni devono mettere le regole e vigilare su di esse. Noi non siamo qui per mettere barriere, dobbiamo solo organizzare il ciclismo che sarà, senza frapporre difficoltà ai vari organizzatori, cercando di aiutarli. Perché serve dare nuove opportunità di sviluppo a questo sport. Ma per far­lo dobbiamo, ciascuno per il suo, avere ben chiara quale sia la rispettiva missione: gli organizzatori come le federazioni e i team. Solo così possiamo co­struire un sistema buono ed efficiente sotto tutti i punti di vista».

E Lappartient il suo obiettivo l’ha ben chiaro e lo ribadisce con più forza: il ciclismo deve essere uno sport globale, non solo europeo.
«Siamo in una fase di riforma generale di questo sport. Ci sono molte vi­sioni diverse sul futuro del World Tour e io penso che ci sia bisogno di continuare a svilupparlo in giro per il mondo. Tenendo in considerazione, come dicevo, l’importanza dell’aspetto storico e di tradizione. Perché il World Tour non sa­reb­be nulla senza il Tour de France, ad esempio. Però nei vari continenti il movimento sta continuando a crescere. Ho in mente il Giro di Turchia, che è un buon esempio di come ogni anno sia possibile migliorarsi in termini sia di visibilità che di partecipazione. Penso che tutte queste ga­re debbano stare insieme sotto il medesimo cappello e che sia anche importante uscire dai confini europei. Il ciclismo, in questo, paga un certo ritardo agli altri sport. Oggi destinazioni come il Qatar, l’Oman o gli Emirati Arabi hanno molte opportunità da offrire. E un domani potrebbe essere altrettanto con la Russia, che tra l’altro è anche un Paese enorme. Perché queste gare non possono ambire ad avere un posto di di­ritto nel World Tour? Lo stesso vale per il Tour de San Luis in Argentina. Una così vasta gamma di alternative non può che essere un bene per il ciclismo».

Quando parla di riforme, però, il nu­mero uno del ciclismo transalpino in­tende anche un cambiamento ancor più strutturale.

«Il ciclismo di oggi si basa sugli sponsor che hanno denaro da investire e cercano un ritorno. E io questo lo ri­spetto. Ma il domani di un team è legato proprio alla continuità di disponibilità economica dell’investitore. Diverso sarebbe se ci fosse un sistema basato su classifiche, un po’ come avviene ne­gli altri contesti sportivi. Perché il ciclismo non può essere così? Non credo nelle competizioni chiuse, non è la mia filosofia, anche se è quella che va per la maggiore in Europa. Penso che il ciclismo debba poggiare più sui valori del risultato sportivo e delle sue regole di promozione e retrocessione, oltre che su quelli etici».

Anche perché la credibilità la si può sì ottenere con una moralità più attenta ai valori puliti dello sport, ma porta con sé anche un positivo circuito di crescita in termini economici.
«Oggi capita che le grandi squadre ab­biano degli sponsor locali. Ne cito due: la Lampre e la Cofidis. Ben inteso, so­no felice che ci siano. Ma dobbiamo ri­conoscere che anche in questo siamo in ritardo con le altre discipline. Perché un top sponsor, come potrebbe essere la Coca Cola, decide di non investire nel ciclismo? Da una parte il problema di non avere un sistema di classifiche, di promozioni e retrocessioni, non agevola l’affidabilità del sistema. Dall’altro non possiamo far finta che non esista una tematica etica. Noi possiamo avere un ottimo prodotto ciclistico, ma come possiamo garantire la trasparenza e cor­rettezza degli atleti? Ci vogliono 5 mi­nuti per distruggere la reputazione di uno sport, ma 20 anni per ricostruirla. Stiamo ancora pagando quanto è successo 10 e 20 anni fa. Certo, il percorso di miglioramento sta andando be­ne ma non è ultimato. E serve che i team manager abbiano posizioni più intransigenti nei confronti dei loro corridori, quando questi vengono scoperti a doparsi».

Una piaga che si affianca a un problema altrettanto grave e che a Lap­par­tient fa perdere il sonno. Quello dei motorini elettrici.

«Mi fermano per strada per chiedermi se è vero che nelle biciclette siano na­scosti questi dispositivi. La gente ne par­la tantissimo ed è estremamente dan­noso per il ciclismo. Ma la cosa gra­ve è che anche nei meeting federali spesso mi domandano quanto sia grave il fenomeno. E la risposta sta proprio in questo continuo disorientamento sul tema, a più livelli. L’Uci deve rinforzare i controlli per garantire la maggior trasparenza possibile, senza di questo non si può avere credibilità e dare un futuro al ciclismo».

Ognuno faccia la sua parte, insomma. Corridori compresi. Eddy Merckx alla vigilia del Tour de France si augurò un vincitore che non fosse Chris Froome.

«Meglio uno che non si risparmia, uno che non corre solo 15 gare l’anno. Me­glio un Alberto Contador, che ha corso anche il Giro per cercare la doppietta col Tour».
Lappartient storce il naso, ma almeno in questo sfodera un certo cerchiobottismo: «Per dare valore ad alcune gare servono gli atleti migliori. Vale per il Tour come per altre competizioni. E da questi atleti è lecito aspettarsi certi va­lori. Poi certo, Contador è un combattente e la gente ama questo tipo di corridori, proprio come Merckx. Ma oc­corre anche saper usare l’intelligenza. Quintana, ad esempio, per me ha corso il Tour nel modo sbagliato e se fossi stato il team manager del co­lombiano avrei studiato qualcosa di diverso, so­prattutto nella tappa dell’Alpe d’Huez, per fare saltare del tutto Froome. Preferisco perdere piuttosto che arrivare secondo e Quin­tana avrebbe potuto vincere il Tour, ma ha corso nel modo meno indicato. Ecco, la Grande Boucle ti impone di dare il massimo, quindi non puoi avere le pile scariche».

Per restare in prima linea, al Tour come più in generale nel panorama sportivo del 2015, serve un ultimo tassello. Quello che porta ai giovani.
«In Esto­nia, agli europei Under 23 e Juniores, abbiamo avuto il record di partecipanti per questo tipo di manifestazione. È stato un risultato molto im­portante, che dimostra come sia corretto continuare a coinvolgere un numero sempre maggiore di Paesi. Sono stato di recente al congresso della Confedera­zione africana di ciclismo e lì ho raccolto grandi aspettative. Sono tutti segnali che mi fanno sperare in un domani sempre più internazionale, con il coinvolgimento di sempre più giovani».

Stefano Arosio, da tuttoBICI di settembre
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