LAMPRE MERIDA. Copeland: alla conquista del mondo

PROFESSIONISTI | 30/01/2015 | 07:00
È l’icona che meglio inquadra l’attuale evoluzione del mon­do sempre più orientato ver­so la globalizzazione. Brent Copeland, il quarantadueenne sudafricano di Johannesburg, team manager dell’unica squadra ciclistica italiana del World Tour, la Lampre Merida, si è già messo alle spalle una vita intensa che lo ha portato a girare il mondo in lungo e in largo stringendo rapporti e conoscenze con tanti personaggi di diverse nazioni e cultura. Sudafricano di nascita, comasco di adozione visto che da circa 17 anni vive nella bella cittadina lacustre, il poliglotta Copeland ha spaziato in tanti sport, fermandosi poi al ciclismo che è stato il suo primo e gran­de amore. Ha avuto una parentesi anche nel motomondiale quando dal 2010 è stato per tre stagioni personal trainer del campione americano Ben Spies: «Esperienza fantastica, avrei po­tuto restare, ma quando si è materializzato il progetto della prima squadra sudafricana, la MTN-Qhu­beka, non po­tevo farmi sfuggire l’occasione di in­segnare ai miei connazionali tutto quello che ho imparato da quando sono ap­prodato in Europa».
Personaggio arguto, silenzioso e attento, capace di ascoltare e nel contempo di scrutare nel profondo degli occhi l’interlocutore, Copeland dal 2013 è tor­nato alla Lampre Merida, dove ave­va mosso i primi passi nel 1999. Al primo raduno del team di Usmate Ve­la­te, che come da tradizione si è svolto a Darfo Boario Terme, abbiamo riavvolto il nastro del film della vita di Brent, una vita che ruota attorno al ciclismo per il quale, quando gli si chiede una definizione, si limita ad un eloquente: «Uno spettacolo enorme».

I PRIMI PASSI NEL CICLISMO.
«Ho iniziato ad andare in bici quando avevo quattordici anni e a quei tempi in Sudafrica il ciclismo era considerato ancora come un hobby, non c’era alcuna idea di professionismo, si iniziava a pedalare per piacere, per di­sputare la gara del paese o qualche Gran Fondo. Mio cugino Ryan Ca­la­ghan andava in bici per divertimento e mi ha invogliato: io praticavo calcio, tennis, atletica a livello scolastico. Nel calcio me la cavavo, come attaccante non ero male: è uno sport che mi è sempre piaciuto e seguo anche adesso».

LA PRIMA BICI.
«Un pezzo di acciaio, una Hanson az­zurra e bianca, una bicicletta pesante. Ho iniziato così alle Gran Fondo e in Sudafrica si corre tutti assieme, anche i professionisti. Prima partono loro, poi a distanza di cinque minuti tutti gli al­tri: ci sono corse a livello amatoriale che hanno fino a 40mila partecipanti. A quei tempi non c’erano i team ma solo la squadra nazionale sudafricana di cui sono entrato a far parte a sedici anni e con la quale ho corso il Report Tour, il Giro del Sudafrica. Ho vinto qualche ga­ra ma non al Report Tour dove venivano anche corridori europei che avevano un li­vello molto più alto del no­stro. Però perlomeno avevo migliorato la bicicletta, una Battaglin, un prodotto italiano che da noi è sempre molto ricercato. A diciassette anni so­no andato a fare il militare: purtroppo ho fatto l’artigliere, non mi hanno inserito nel reparto sportivo, così sono rimasto fer­mo per un anno. In teoria gli anni di servizio militare obbligatorio avrebbero dovuto essere due, ma proprio in quel momento ci fu la fine dell’apartheid grazie a Nelson Mandela e i due anni si sono ridotti a uno. Appena congedato, sono tornato a correre in bici perché la passione per il ciclismo era enorme, guardavo tutte le gare in televisione, a quei tempi non c’erano le dirette ma delle registrate non ne perdevo una. Ricordo Hinault, Indurain, Chiappucci: più li guardavo e più au­mentava la passione».

L’ARRIVO IN EUROPA.
«Ho corso due anni mentre studiavo ancora, poi a vent’anni ho deciso che avrei fatto il corridore e l’unica possibilità per riuscirci era quella di trasferirmi in un team europeo. Con la tessera della federazione sudafricana potevo an­da­re a correre in Belgio e Olanda, ma io non volevo andare a disputare le ker­messe o certe corse del nord che non erano nelle mie caratteristiche; quindi ho deciso di scrivere una lettera alle federazioni spagnola, francese e italiana perché, viste le mie caratteristiche più da scalatore che da velocista, avevo capito di dover andare in uno di questi tre Paesi, in Italia soprattutto. Non ho ricevuto risposte e anche chi mi aveva dato un piccolo spiraglio trovava enormi ostacoli per via della bu­rocrazia: visto, permesso di soggiorno e via elencando. Nel frattempo ho conosciuto il massaggiatore di un team under 23, Sergio Bianchi di Bregnano nel Comasco, che era venuto anni pri­ma in Sudafrica a fare il Report Tour: lui e il suo amico Ugo Balatti di Man­del­lo del Lario, che purtroppo è venuto a mancare nel 2013, mi hanno fatto avere la tessera per gareggiare in Sviz­zera dove non serviva il permesso, e mi hanno ingaggiato al Velo Club Lu­gano, team che era impegnato nel set­tore giovanile e aveva formazioni fino agli Under 23 ed Elite. A vent’anni quindi mi sono trasferito in Europa per provare la nuova esperienza e ricordo che è stato molto molto difficile: non ca­pivo niente, non sapevo nulla del ci­clismo in generale, non sapevo quanti allenamenti fare e come dovevo farli, non avevo idea di quale preparazione dovevo seguire, di come nutrirmi e tan­te altre cose. Ci ho messo almeno due stagioni a capire bene come dovevo al­le­narmi e muovermi, nel frattempo la squadra mi utilizzava come gregario di chi andava più forte. Ho avuto la fortuna di correre con corridori importanti come Oscar Camenzind (campione del mondo nel 1998, ndr), Armin Meier, Andrea Guidotti; era una squadra im­por­tante e a quei tempi in ammiraglia c’era Simone Pedrazzini, ora direttore sportivo della Lampre Merida. È stato molto difficile: ero via da casa, da solo, non conoscevo le lingue, ero uno dei primi sudafricani a uscire dalla mia na­zione, però l’ho presa come una sfida. A vent’anni era un divertimento, un’esperienza che mi è piaciuta. Ho visto tanti corridori intorno a me che anche a trent’anni cercavano a tutti i costi di passare professionista e di fare la vita da corridore: io invece mi sono dato un limite, se non fossi riuscito a passare prof entro i venticinque anni, sarei tornato in Sudafrica per cercare un altro mestiere».

GIU’ DALLA BICI A 25 ANNI.
«Non ho mai vinto una corsa in Eu­ropa e, visto che a 25 anni non avevo l’opportunità di passare di categoria, ho de­ciso di tornare a casa. Ma proprio in quella stagione il Vc Lugano ha firmato la fusione con una squadra giapponese, la Nippon Hodo, e mi ha dato l’opportunità di iniziare una carriera nel ci­clismo come massaggiatore, così ho fat­to il corso e ho seguito la squadra. Un anno più tardi c’è stata la fusione con la Gewiss, una grande squadra a quei tem­pi, e oltre a fare il massaggiatore seguivo il diesse in ammiraglia, anche perché nel frattempo frequentavo i vari corsi della federazione e stavo prendendo il patentino di direttore sportivo. In questo ruolo ho fatto l’esordio a 27 anni proprio alla Lampre, e credo sia stato un record o quasi ricoprire quel ruolo in età così giovane. Erano tempi diversi da oggi: allora si poteva fare il massaggiatore e allo stesso tempo guidare la seconda ammiraglia del team, ricoprendo i due ruoli. È stata una gran bella esperienza perché ho potuto conoscere i segreti di più ruoli che poi mi sono serviti per affrontare al meglio il compito di team manager. Ricoprendo diverse mansioni, capisci le esigenze di tutti quanti; e nel mio ruolo attuale mi serve tantissimo».

RUOLI E RAPPORTI DIVERSI.
«Da diesse a team manager le cose cambiano profondamente. Il rapporto con il corridore è diverso: il direttore sportivo ha molto più contatto con l’atleta, si vedono e sentono molto spesso, vanno alle corse insieme, il diesse sa un po’ di tutto quello che c’è da sapere del corridore sia dentro la corsa sia fuori, aspetto che è molto importante. Il mio ruolo è oramai diventato più distaccato dai corridori, in quanto io lavoro con i tecnici che poi a loro volta lavorano con gli atleti, anche se la decisione finale la devo prendere io, ovviamente confrontandomi con i direttori sportivi».

COPELAND E LA FAMIGLIA.
«Non sono sposato e se questo da una parte mi ha evitato un certo tipo di problemi, dall’altra mi sarebbe piaciuto ave­re una famiglia che potesse fare il percorso con me; non ho avuto questa opportunità fino ad oggi, ma mai dire mai... Ho avuto la fortuna di avere genitori che mi hanno dato il loro appoggio in tutte le scelte che ho fatto: non è facile per loro, e più si va avanti più tutto si complica: pensate che sono riuscito ad andare in Sudafrica poco tempo fa, dopo circa due anni di lontananza. Però hanno accettato le mie scelte, vedono che sto bene, che faccio il lavoro che mi piace fare e di conseguenza ne sono felici anche loro, anche se di ciclismo ne capiscono poco».

CICLISMO E GLOBALIZZAZIONE.
«Cosa manca al ciclismo africano per emergere in bicicletta? Stiamo arrivando. Come in tutti gli altri continenti che stanno imparando a farsi strada nel ciclismo, anche da noi accade la stessa cosa. Nel ciclismo di oggi ci sono tante corse in Paesi dove prima non c’erano gare; il mondo è diventato più piccolo, nel senso che è più facile arrivare da una parte all’altra del globo con le logistiche e i trasporti che ci sono adesso. Questo ha aumentato la possibilità di muoversi e di conseguenza la passione e la curiosità per la bicicletta: al Giro di Ruanda ci sono state tappe con oltre un milione di persone sulla strada, cosa inimmaginabile quando ho cominciato io. La qualità degli atleti africani è enor­me, basta vedere cosa sanno fare nelle maratone o nel mezzofondo in atletica, e sicuramente nel ciclismo pri­ma o poi arriva qualcuno di importante. Oggi come oggi c’è già chi si è mes­so in evidenza: alla Lampre Merida ab­biamo ingaggiato l’etiope Tsgabu Ge­bremariam Grmay che ha vinto una tappa ed è arrivato secondo al Giro del Taiwan, un corridore che sa andare in bici. In Eritrea ci sono un paio di atleti sui diciannove anni che promettono molto bene: secondo me entro cinque anni qualche campione verrà fuori».

GRAZIE LAMPRE.
«Oramai mi sento parte della famiglia Galbusera e della Lampre, sono quindici anni che ci conosciamo: mi hanno trattato come uno di loro e questo l’ho sentito sin dal primo giorno e lo sento anche adesso. Devo solo ringraziare loro e Saronni per l’opportunità che mi hanno sempre dato. Parliamo spesso tra di noi: metto le mie idee sul tavolo, i miei consigli, poi naturalmente sono loro che prendono le decisioni. In passato ho avuto una grossa parte nel portare alla Barloworld corridori come Hunter, Cooke, Froome e altri, abitavamo tutti a Como, si era creato il gruppo dei sudafricani a quei tempi e mi piace pensare di aver dato un mio contributo in tutto questo. Ho iniziato io a prendere casa in città a Como, dove tuttora vivo, poi ho portato Hun­ter, Froome e tutti gli altri».

LAMPRE MERIDA 2015.
«A Darfo Boario Terme ha mosso i pri­mi passi una squadra rinnovata, certo spiccava l’assenza di Damiano Cune­go... Ora Rui Costa è il nostro leader: è un ragazzo che ha la qualità per essere un grande campione, come ha dimostrato, e per essere il leader della squadra. È un ragazzo un po’ introverso, timido, ma lo scorso hanno corso per la prima volta da leader e ne ho avuto un’ottima impressione. Visto che è un ragazzo molto intelligente, si è guardato intorno, ha fatto esperienza e in questo 2015 deve dimostrare di essere un vero capitano. Mi sbilancio: dal ritiro di Darfo Boario ho già visto in lui questo mutamento e vedremo una gran­de differenza nel 2015».

MODOLO, BONIFAZIO E CONTI.
«Sacha ha più anni e più esperienza, ma nel 2014 ha affrontato il suo primo anno nel World Tour e anche noi non sapevamo bene come impostare la sua stagione. Abbiamo fatto l’esperienza di farlo correre al Tour de France evitando il Giro d’Italia, anche se la sua av­ven­tura alla Grande Boucle è stata sfor­tunatissima: insieme abbiamo fatto tesoro di quello che è stata la sua stagione preparando un programma più preciso, con obiettivi più dettagliati. E nel 2015 dovremmo vederlo al via del Giro d’Italia. A Modolo sono piaciute le corse del Nord, mi ha detto che sono corse che sente dentro e questo è un primo passo importante, perché per fare bene quel tipo di gare le devi sentire. Bonifazio è uno dei tanti giovani che stiamo facendo crescere nel modo migliore possibile, senza mettergli pressione addosso; ha già fatto tantissimo con 5 vittorie, ma anche lui nella prossima stagione deve cominciare a puntare su qualche gara più importante. Stesso discorso per Valerio Conti, lo vogliamo vedere nelle corse a tappe orientandolo a guardare la classifica, abbiamo l’idea di farlo lavorare per mi­gliorare a cronometro e farlo crescere in questa direzione».

PIPPO POZZATO, SCOMMESSA O FIDUCIA?
«Noi in Pippo ci crediamo, ha ancora le qualità di fare risultato in una gara im­portante. Lui per primo è consapevole di questo, sa che lo deve dimostrare, noi stiamo facendo di tutto per stilare un programma che, tra allenamenti e gare, gli consenta di centrare qualche obiettivo che conta. È difficile cambiare e stravolgere il suo programma: si possono magari inserire più corse invece che allenamenti - è stata anche una sua richiesta - e siamo convinti che sia la so­luzione migliore».

LA PROIEZIONE SULLA STAGIONE 2015.
«Non voglio sbilanciarmi, non sono il tipo che rende pubblico l’obiettivo del team. Internamente lo abbiamo ben chiaro, lavoriamo bene e al massimo per arrivarci. Senza dire il numero, pos­so dire che vogliamo sicuramente mi­gliorare la qualità delle vittorie, ma per me è ancora più importante vedere il lavoro dei ragazzi in gruppo. Voglia­mo cambiare il modo di correre, vogliamo una Lampre Merida più unita in gara: questo, secondo me, ci è mancato lo scorso anno. Se riusciamo a migliorare sotto questo aspetto, di vittorie ne arrivano anche di più. I ragazzi devono imparare, devono parlarsi, devono capire dove si fanno gli sbagli, e avere un leader che spiega bene le proprie esi­gen­ze: quest’anno secondo me un im­portante passo in avanti ci sarà».

Valerio Zeccato, da tuttoBICI di gennaio
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