Il gelato di Daniele Ratto

PROFESSIONISTI | 04/11/2013 | 09:01
Cocco e cioccolato. Un cono, se possibile grande. Ecco co­sa spinge Daniele Ratto ad andare forte. Sulla Collada de la Gallina, il traguardo più importante della sua ancor giovane carriera, il gelato (anche per motivi climatici) non è stato il suo primo pensiero, ma il suo ricordo più remoto legato alla bicicletta ha per protagonista una grande coppa... gelato. Risale a una promessa con Franco Chirio quando era G1 in maglia Gewiss-Ballan. Se avesse vinto, il suo primo direttore sportivo gli avrebbe comprato un gelato. «Arrivai secondo per pochissimo, ma il gelato lo mangiai comunque». Ai peccati di gola Daniele, 72 chili per 1,80 metri, continua a far fatica a resistere, «ho un de­bo­le per la pizza e la carne», ma crescendo si è dovuto adeguare alla dieta da ciclista che impone rigore e sacrifici.
Per un velocista è importante la linea, ma non serve essere scheletrici. E in una giornata da tregenda come quella in cui ha trionfato in solitaria alla Vuel­ta a España, in una frazione pirenaica durissima, resa massacrante dal mal­tempo (ai 2.410 metri del Port de En­va­lira, cima più alta della Vuelta, pioveva acqua ghiacciata e tirava vento gelido, ndr), il chilo in più rispetto al peso forma è stato la sua arma vincente. Mentre il suo capitano Ivan Basso e tanti altri big erano costretti a cedere all’ipotermia, tra le smorfie di dolore e fatica spiccava un sorriso raggiante. Un ragazzo di talento, che sulle strade di Spagna ha ritrovato il bel vizio di vincere, che non ha più intenzione di perdere.
Un velocista che vince in salita, come è possibile?
«Ho trovato la mia giornata di gloria nella tappa più dura del Giro di Spagna andando in fuga tre chilometri dopo il via prima con Philippe Gilbert e Luis Leon San­chez e poi da solo, inventandomi discese al limite e amministrando il vantaggio nella dura ascesa finale. Da junior e dilettante vincevo anche in sa­lita, tra i professionisti mi sono subito accorto che gli scalatori veri vanno trop­po forte per me, allora mi sono buttato nelle volate, visto che ho sempre avuto un buo­no spunto veloce. Se devo inquadrarmi in una categoria, mi definirei un passista completo, un velocista che tiene abbastanza in salita e può dire la sua in arrivi ristretti».
In discesa ti sei divertito.
«Sì, sono abituato al freddo e alle “pieghe”. In ogni curva staccavo la gamba interna in cerca di un appoggio per evitare di usare troppo i freni. I miei compagni mi hanno sempre preso in giro, ma la tecnica del piede funziona. L’ho imparata in moto, una Kawasaki Z750, quasi 110 cavalli di potenza. Dovrei dire che la uso solo per andare a prendere il gelato, ma non mi crederebbe nessuno. Dai, oltre alla bici bisogna fare anche altro nella vita... Il ciclismo è il mio lavoro, ma è umano concedersi qualche distrazione ogni tanto. Perché mi piace la moto? Perché sono sempre due ruote, ma senza fare fatica».
Meglio l’adrenalina della volata o trionfare da lontano?
«La seconda perché è una vittoria più sofferta che si ha tempo di godere appieno. All’inizio ero convinto che mi riprendessero, avevo attaccato così presto per essere a disposizione di Ivan, avvertivo buone sensazioni ma ero convinto di essere rimasto da solo troppo presto, i 60 chilometri finali senza un cambio, non passavano proprio più! Ho capito che era fatta a 3 chilometri dal traguardo, da quel momento in poi non vedevo l’ora di arrivare per poter alzare le braccia al cielo. È stato proprio bello».
A chi o a che cosa hai pensato in quel momento?
«A me stesso, ai tanti sacrifici affrontati, alle tante volte che ho sfiorato il successo senza riuscire ad acchiapparlo, agli innumerevoli secondi posti degli ultimi tempi. Al primo anno da professionista ho imparato molto alla Car­miooro NGC ed è arrivato più di quello che mi aspettavo: numerosi piazzamenti e la vittoria al GP Larciano. Nel­le stagioni successive alla Geox TMC e alla Liquigas Cannondale ho dimostrato di essere migliorato in resistenza, ma mi mancava la vittoria. C’era sempre qualcuno che riusciva a darmi mez­za ruota o a fregarmi in altro modo co­me nella quarta tappa della Vuelta a Burgos che ho vinto al fotofinish prima di essere declassato per volata irregolare. C’era sempre qualcosa che andava storto. Finalmente mi sono tolto una bella soddisfazione, ci voleva proprio».
A casa come hanno reagito?
«Ho ricevuto ovviamente tante chiamate e messaggi, la valle in cui vivo ha pochi abitanti ma andando in giro sempre in bici mi conoscono tutti. Siccome la tappa che ho vinto cadeva di sabato, in famiglia hanno potuto godersela per intero davanti alla tv. Avevo sentito i miei genitori il giorno prima e avevo spiegato loro che avrei attaccato in funzione della squadra ma con le sa­lite in programma ero sicuro di saltare e di finire nel gruppetto, quindi ave­vo detto loro di non stare a diventare matti per guardare la diretta. Non mi hanno ascoltato e a posteriori direi che hanno fatto bene».
Nonostante il dispiacere per il ritiro di Basso, in Spagna avevate conservato qualche energia per far festa?
«L’abbandono di Ivan ci ha lasciato nello sconforto perché era in grande condizione e almeno il podio era alla sua portata. Tornando alla vittoria di tappa, devo ringraziare il diesse Ma­riuz­zo che è stato bravissimo a motivarmi dall’ammiraglia. Dario è an­che l’anima dei festeggiamenti postvittoria, è lui l’inventore dello “zigo zago zigo zago, mi no pago mi no pago” che urliamo tutti insieme stappando la classica bottiglia di spumante. Con Sagan è diventata un’abitudine, ma quando sei tu il protagonista della festa è speciale».
Come ti trovi a correre in Cannondale?
«Benissimo, siamo una tipica famiglia italiana in giro per il mondo. I compagni mi aiutano sempre e spesso sono loro a trasmettermi la sicurezza che mi manca. Al Giro di Polonia e alla Vuelta a Burgos, per esempio, non mi sentivo al top quindi non volevo farli lavorare, ma loro mi sono stati vicini incitandomi e dicendomi che si sarebbero sacrificati per me perché erano convinti avrei potuto lottare per la vittoria. Per me la loro fiducia vuol dire tanto. Lo staff e il personale sono altrettanto preziosi. Sono felice di stare in questo team almeno un altro anno».
Dopo due stagioni sottotono, le uniche in cui non hai vinto da quando pedali, stai attraversando un grande periodo di forma. Hai cambiato qualcosa nella preparazione?
«Dopo il primo anno nella massima ca­tegoria, mi sono reso conto di dover fare un salto di livello. Mi sono allenato di più che in passato e ho accumulato l’esperienza che in molte situazioni può fare la differenza. Invecchiando (ha compiuto 24 anni il 5 ottobre, ndr) sto imparando a rimanere attaccato al gruppo quando mi sembra di essere “finito”, sto conoscendo le strade delle gare più adatte a me e sto migliorando anche di testa. Riesco ad allenarmi co­me si deve e a rimanere più concentrato sugli obiettivi anche quando sono a casa e non in ritiro».
Qual è stata la tua colonna sonora alla Vuelta?
«Il mio compagno di camera Maciej Paterski penso non sopporti più Mi­nuetto di Mia Martini, ho perso il conto di quante volte gliel’ho fatta ascoltare...».
Hai avuto tempo di vedere qualche film?
«In realtà no, perché alla sera ero sempre stanco morto. Oltre alla corsa in sé ci sono i traferimenti, i massaggi (che se hai le gambe per aria non sempre sono piacevolissimi!)... Dopo cena ave­vo solo voglia di dormire. Il tempo li­bero in pullman prima e dopo la tap­pa l’ho passato leggendo. A questo Giro due libri di Fabio Volo: Il giorno in più e Il tempo che vorrei».
La vittoria alla Vuelta è stata un segnale importante per il Commissario Tecnico Bettini, non sufficiente però a ottenere la convocazione per il Campionato del Mon­do di Firenze.
«Ci speravo come qualsiasi corridore che sogna di disputare la rassegna iridata in casa, ma ero consapevole che il tracciato fosse impegnativo per me e che in Italia abbiamo il problema o me­glio la fortuna di avere tanti atleti che vanno forte. Se fossi entrato nella selezione di Bettini sarei stato più che onorato, ma non nutro alcun rancore nei suoi confronti perché ho compreso le sue scelte. Sono realista: c’erano corridori più validi di me per un percorso del genere. Il bello della nazionale è sentirsi parte del gruppo, nelle categorie giovanili ho avuto l’onore di vestire la maglia azzurra in più occasioni. L’ul­tima volta ero dilettante, nel 2007 fui vicecampione del mondo dietro a Die­go Ulissi su un podio interamente tricolore (3° fu Elia Favilli, ndr). Di­fen­de­­re i colori del proprio paese è il so­gno che ogni atleta nutre fin da bambino, rientrare nel gruppo azzurro da professionista sarebbe stata una soddisfazione personale davvero grande ma sono giovane, avrò altre occasioni per rifarmi».
In compenso, in nazionale, in campo femminile abbiamo ammirato un’altra Ratto. Chi è più forte tra te e tua sorella Ros­sel­la?
«In una gara tra me e lei in salita do­vrei ancora spuntarla (ride, ndr), ma è difficile fare paragoni perché ci troviamo in due mondi diversi. Lei corre per la squadra norvegese Hitec Products e, come ha fatto vedere anche a questi ultimi mondiali, è sempre tra le migliori, mentre io vinco più occasionalmente. In casa fin da piccoli abbiamo en­trambi mangiato pane e ciclismo grazie alla passione di mamma Monica e papà Roberto che, oltre che cicloamatore ha un passato nel motocross. Anche no­stro fratello Enrico (Peruffo, ndr) ha mi­litato nella massima categoria. L’an­no scorso ha chiuso la carriera con la Miche Guerciotti e da quest’anno lavora in un outlet della Bianchi in centro a Bergamo».
Hai iniziato a pedalare per seguire le or­me di Enrico?
«Sì, gli esordi risalgono a prima che fos­si G1. Avete presente le gimkane o le brevi corse fuoristrada senza classifiche? Ecco, attorno ai cinque anni mi divertivo così. Mi ricordo che all’epoca giocavo per giornate intere con una biciclettina rossa con le ruote bianche che ricordavano quelle a razze. Era il mio gioiellino per fare le volate...».
Il corridore a cui volevi assomigliare da piccolo?
«Ho sempre ammirato Johan Mu­seeuw, da bambino guardavo la Parigi-Roubaix per lui e se gli succedeva qualcosa rimanevo con il muso per tutto il giorno. Chiaramente io non sono un corridore da pavè, non lo ricordo neanche lontanamente, però ero affascinato dal suo modo di correre».
Come te la cavavi a scuola?
«Passiamo alla prossima domanda? (sorride, ndr). Non sono mai stato un asso, ho studiato prima grafica pubblicitaria e poi all’Istituto Tecnico ma diciamo che non ero il pri­mo della classe e nemmeno il se­condo o il terzo».
Sei nato a Moncalieri, ma abi­ti da sempre nella bergamasca.
«Sì, ho frequentato le scuole elementari a Torino, poi per mo­­tivi di lavoro di papà ci siamo trasferiti. Papà lavora come impiegato d’ufficio in una fonderia, mamma teo­ricamente è a ca­sa ma di stare tranquilla non ci riesce proprio. È sempre in giro per corse anche lei».
Hai un soprannome?
«Mi chiamano Stufetta perchè sono molto caloroso, sono sempre in maniche corte».
Il tuo pregio più grande?
«Sono una persona positiva. In genere riesco a trovare il lato migliore delle cose e a strappare un sorriso a chi mi sta vicino».
Il difetto peggiore?
«Mi arrabbio e de­mo­­ra­lizzo per poco, an­che solo per un dettaglio sbagliato».
Come trascorri il tempo libero?
«Con la moto o le minimoto, tra me e mio fratello ne abbiamo cinque, tra poco arriverà la sesta. Mi piace stare con gli amici, disegnare, passare tempo al computer. Insomma, le cose semplici».
Hai animali?
«Vivendo da solo (a Gazzaniga, ndr) ed essendo sempre in giro è impossibile averne, ma se potessi la scelta ca­drebbe di certo su un cane. A casa di mamma ne abbiamo due, due bastardini che abbiamo trovato per strada, ai quali sono molto affezionato».
Il posto più bello che hai visto grazie alle corse?
«L’Australia sia per i paesaggi che per lo stile di vita, in generale molto più tranquillo rispetto al nostro. Mi hanno fatto notare che in Spagna vado forte, in carriera la maggior parte dei piazzamenti in effetti l’ho raccolta in terra iberica, quest’anno il 98% dei miei risultati l’ho conquistato proprio lì».
Prossima vacanza?
«Una settimana a New York, a fare il turista. Già mi immagino a mangiare al McDonald’s di Times Square e a passeggiare per Manhattan».
La tua corsa dei sogni?
«La Liegi-Bastogne-Liegi. Una volta mi piacerebbe arrivare nei dieci in questa classica. Quest’anno mi sono staccato dai migliori sul Saint Nicolas, spero di migliorarmi già dall’anno prossimo».
Che obiettivi ti sei posto per il finale di stagione?
«Di vincere una tappa alla Vuelta (sorride, ndr). Dopo il GP Co­sta degli Etruschi a Donoratico, in programma ho Il Lombardia e le corse World Tour in Cina. Mi piacerebbe disputare un bel Lombardia...».
Ci hai proprio preso gusto con la salita, eh?
«Non esageriamo! Per far bene al Lom­bardia non intendo che punto a vincere, conosco i miei limiti e so che in una corsa di un giorno così prestigiosa non basta centrare una fuga ma serve una condizione perfetta e tanta gamba. È da luglio che sono in for­ma, se avessi un calo sarebbe comprensibile».
Corri da sempre, cosa ti ha dato il ciclismo?
«Sicuramente mi ha insegnato ad essere indipendente. I sacrifici che impone “ti svegliano fuori” prima rispetto a un ragazzo qualunque. Le due ruote, inoltre. mi hanno permesso di visitare tanti paesi e conoscere tante persone, alcune delle quali sono diventate amiche preziose».
Come Carly Hibberd, la ventiseienne au­straliana travolta da un’auto nel 2011 men­tre si stava allenando.
«Sì. Per un lungo periodo mi sono sentito in colpa per la sua scomparsa. La settimana prima del suo incidente era stata a casa mia perché era molto amica della mia ragazza dell’epoca (Samantha Galassi, che fino a due anni fa correva tra le Elite con la MCipollini, ndr): per non sentirsi di troppo, dopo qualche giorno da noi ha voluto tornare a casa sua, verso Como. Mi sono ripetuto mi­lioni di volte che se l’avessi fatta restare di più, le cose sarebbero andate di­versamente perché nelle mie zone c’è meno traffico, ma alla fine il destino non si può cambiare e i se e i ma a po­steriori non hanno senso. La bici aiuta anche a superare il dolore, abitua alla fatica. Come dopo una tappaccia risali in sella, così bisogna reagire ai tiri man­cini della vita, perfino ai più dolorosi, senza dimenticare. Episodi come questo o l’incidente ad un’altra ragazza eccezionale come Marina Romoli sono difficili da accettare, soprattutto per chi per mestiere sta ore in strada rischiando davvero tanto. Certi automobilisti, solo per dispetto, stringono chi pedala. Pensano di intimorirci e che, al massimo, possiamo graffiar loro il paraurti. Servirebbero maggiore attenzione, cultura e rispetto».
Se non avessi fatto il ciclista?
«Non ho mai pensato veramente a un’altra professione, forse avrei giocato a calcio. Non per fare meno fatica o guadagnare di più, solo perchè le partitelle con gli amici mi divertono molto. Come ogni attività che non si pratica spesso, il calcio ai miei occhi appare come uno svago rispetto a quella a cui dedico gran parte del mio tempo».
Come vorresti diventare da grande?
«Spero di togliermi altre soddisfazioni in sella, ottenendo qualche altra vittoria. Per quanto riguarda la vita privata quando appenderò la bici al chiodo mi immagino su una spiaggia, a Miami, con un baracchino a vendere... gelati».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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