Luca Celli, ve lo ricordate? Bene, dopo tre anni è innocente!
PROFESSIONISTI | 02/10/2013 | 17:22
In nome del popolo italiano il signor Luca Celli è innocente. Ma la sensazione è che la giustizia, dentro e fuori i tribunali, non sia uguale per tutti. Specie per i ciclisti c’è un ostacolo in più, un gran premio della montagna hors categorie: la presunzione di colpevolezza da vincere.
L’ex pro di San Mauro Pascoli ce l’ha fatta e dopo una lunghissima odissea ha dimostrato che col doping non c’entra niente. Nel frattempo ha perso il lavoro ma non quella tenacia che lo ha sempre caratterizzato, come uomo e come ciclista. Alla fine della sua battaglia giudiziaria ha riacquistato pure la dignità ma solo agli occhi del mondo: lui sapeva bene di non averla mai smarrita. ‘Pulito’ In carriera Celli, 34 anni, non è mai stato trovato positivo, né gli hanno mai sequestrato farmaci o robacce strane e, da ieri, non ha procedimenti penali a carico. A parte qualche multa per divieto di sosta, il ragazzo è ‘pulito’. Sicuramente più di certi pregiudicati che nel corso degli anni hanno disonorato il Parlamento o di (presunti) padri della Patria miracolati dalla prescrizione.
Una corsa lunga 3 anni La corsa più lunga dell’ex tennista fulminato sulla via del ciclismo all’università, è durata tre anni. Dall’ottobre 2010, quando scatta l’operazione “Cobra-Red”.
Col solito gusto per l’americanata, gli inquirenti battezzano l’indagine coi soprannomi dei corridori più famosi coinvolti: Riccardo Riccò e il cognato Enrico Rossi. Il primo però ne è già uscito pulito da tempo mentre per il riminese, per il quale nonostante certe facili condanne sui media vale la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, i tempi sono ancora lunghi. Celli, allora compagno di squadra e di allenamenti di Rossi e di Riccò alla Flaminia, subisce una perquisizione a casa. Non gli trovano neanche un’Aspirina ma finisce ugualmente nel registro degli indagati. Il suo avvocato, Alessandro Sivelli di Modena, anche e soprattutto sulla base dell’inconsistenza delle intercettazioni, chiede lo stralcio del suo assistito dal processo. “In mano avevano telefonate e sms dove mai, e sottolineo mai - chiarisce l’ex pro - compare il nome di una sostanza proibita né neanche lontanamente si capisce che le abbia cercate, usate o spacciate”. Dunque? Mi dicono che parlavo in codice e non so se ridere o piangere”. Poi il 9 marzo 2012 Celli vorrebbe sbattere la testa nel muro: in primo grado gli danno sei mesi per “acquisto e uso” di non ben precisati prodotti dopanti. Nelle motivazioni della sentenza, le toghe gli addebitano addirittura “l’interessamento” a pratiche illecite e insistono sul linguaggio in codice senza fornire la chiave di lettura.
Il Giro fantasma. Mentre Luca affronta il suo calvario tra codici, leggi e carte bollate, le ruote del ciclismo continuano a girare. Nel 2011, dopo la squalifica di Alberto Contador, Michele Scarponi si aggiudica il Giro d’Italia. Con Celli che si rode il fegato: era stato proprio il marchigiano a proporlo alla Lampre nell’estate 2010. Sarebbe stato il suo gregario più fedele nei successivi due anni. Non a caso c’era già un bel precontratto. Che il team manager Saronni - già nei guai per l’inchiesta su una farmacia mantovana ritenuta il cuore del doping di squadra - ha provveduto a stracciare non appena è stato informato delle disavventure di Celli. Tradotto in soldoni: il ragazzo ha perso 200mila euro come stipendio base più tutti i premi della corsa rosa. Nessuno poi lo ha più cercato: l’appestato romagnolo era stato beccato e meritava di essere dimenticato.
Tempo galantuomo. Il tempo invece si è dimostrato galantuomo. Ieri la corte di appello di Perugia ha assolto Celli da tutte le accuse. Una vittoria piena, in solitario come sognato dall’avvocato Sivelli e dal suo cliente per lungo tempo: la motivazione recita che “il fatto non sussiste”. Nel dibattimento il legale del Coni, costituitosi parte civile, ha insistito sulle intercettazioni scomodando, udite udite, il Reactine, banale farmaco da banco per le allergie. In una conversazione col proprio preparatore, Celli aveva chiesto lumi su un medicinale che ad anni alterni finisce nella lista delle sostanze bandite. Fuffa, insomma. Al punto che lo stesso imputato ha sentito il bisogno di spiegarsi col giudice. Che, a differenza dei suoi illustri colleghi, si è convinto che c’era ben poco - anzi, nulla - per una condanna.
Cin cin. Ora che è finita si tirano le somme. La carriera di Celli è stata distrutta, è stato violato il principio costituzionale di innocenza e l’ambiente ciclistico gli ha voltato le spalle - “Devo solo ringraziare mia moglie e i miei figli, a un certo punto ho rischiato di perdere la testa” - proprio come fece col povero Pantani. I danni non possono essere chiesti a nessuno: né allo Stato perché non c’è stata detenzione o custodia cautelare né alla Lampre perché una clausola permetteva alla squadra di allontanare il corridore solo sulla base dei sospetti. E’ l’usanza generale. Unico mestiere al mondo. Come se la fatica, le cadute, il freddo glaciale e il caldo torrido non bastassero. Al primo venticello calunnioso scatta la litania, dalla casalinga di Castellammare al professore universario: “I ciclisti? Tutti dopati”. Celli, che gestisce l’enoteca Doc in viale Carducci a Cesenatico, ora potrebbe pure tornare a correre. Intanto si è fatto un bel brindisi. Alla faccia di tante, troppe persone.
Emanuele Conti per «La Voce di Romagna» del 1 ottobre 2013
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