| 28/12/2012 | 09:37 «Ci tenevo molto all’Oscar tuttoBICI. È ormai uno dei riconoscimenti più importanti in assoluto. L’anno scorso sono arrivato secondo, alle spalle di Michele (Scarponi, ndr) e ora, dopo la vittoria del 2010 torno a vincerlo, ma ci tengo a precisare che per me questo è il terzo Oscar, visto che il primo l’ho vinto esattamente dieci anni fa da juniores: insomma, questo è un premio che porta anche bene». Vincenzo Nibali è sereno, sereno come non mai. È tornato dal viaggio di nozze alle Maldive con la sua Rachele, sposata il 13 ottobre. Ed è da poco risalito in bicicletta, con la sua nuova maglia, quella della Astana di Beppe Martinelli. Vincenzo guarda alla prossima stagione, che è lì alle porte. Stagione importante, densa di impegni, carica di sogni. Ma con lui facciamo anche un passo indietro. Tiriamo le somme di un 2012 più che positivo. Insomma, come nelle migliori tradizioni degli inverni ciclistici ci lasciamo andare al racconto. Ai bilanci. Ai sogni… Il tuo 2012 è stato molto intenso, fin da subito… «Ho iniziato a gennaio molto presto, perché volevo riscattare una stagione nella quale avevo rimediato solo piazzamenti. È vero, dopo la squalifica a Contador, a Michele è stato data la vittoria del Giro e io sono risalito al secondo posto e ho anche guadagnato una vittoria di tappa, quella della cronoscalata Belluno-Nevegal, ma non è la stessa cosa, io francamente non la sento totalmente mia, anche perché sul podio per quella vittoria non ci sono mai salito. In ogni caso ho deciso di ripartire subito dal Tour di San Luis per raccogliere qualcosa di buono, per trovare la condizione migliore e sono andato anche al Giro dell’Oman, dove poi ho trovato la vittoria e mi sono davvero tolto un peso». Basta una vittoria di tappa al Giro dell’Oman per ridarti serenità e sicurezza? «La tua domanda è spietata ma è molto pertinente e io ti rispondo di si. Vincere non è mai facile, soprattutto quando si perde da troppo tempo. Come ti ho detto, le vittorie con asterisco ottenute dopo le squalifiche di Mosquera e Contador, sulla Bola del Mundo e al Nevegal, non te le senti sulla pelle e quindi hai bisogno di tornare a staccare tutti. Vuoi capire se sei ancora capace di vincere qualcosa. Mi sentivo come quegli attaccanti di calcio che si fanno un mazzo tanto ma non segnano mai. Quella vittoria in Oman mi ha sbloccato, mi ha dato delle risposte. Quelle che io cercavo in quel momento specifico della stagione. Logico che poi le vittorie che ti danno soddisfazione sono altre, ma quando non vinci nulla, anche la vittoria al Giro dell’Oman, dove in ogni caso trovi avversari con il coltello fra i denti e giovani che ti vogliono spezzare in due, ha un valore. Eccome che ce l’ha». Sei superstizioso? «Sì, e la vittoria che non arrivava mi bloccava il cervello. Mi pesava enormemente più di testa che di altro. Credimi, centrare un successo è la miglior medicina per tornare a vincere con regolarità». Difatti è poi arrivata la vittoria alla Tirreno… «Esattamente. Quello era poi il mio primo vero obiettivo stagionale. A quel forcone (nella nostra copertina Vincenzo ha sia il forcone di Nettuno, dio del Mare, trofeo della Tirreno-Adriatico che quello del terzo posto al Tour, ndr) ci tenevo parecchio, anche se io per abitudine non dico mai “quella corsa la vinco”: porta solo jella». Prima del trionfo, però, lo strappo di Tivoli. «Peter Sagan è stato fortissimo e, avendo paura di Kreuziger e di Di Luca, ha tirato dritto vincendo la tappa. Io al momento non l’ho presa benissimo, perché con quella azione mi ha di fatto portato via secondi preziosi in chiave classifica generale, ma in albergo ci siamo chiariti subito e, francamente, non gli ho dato torto. Ha fatto quello che doveva fare». Poi il giorno dopo sei stato tu a fare quello che dovevi fare. «Esattamente. Stavo molto bene e in pratica quel giorno ho vinto la Tirreno. Ma ho dovuto correre anche una grande cronometro: temevo Kreuziger e poi alla fine si è rivelato più pericoloso Horner». Dopo la Tirreno, il sogno della Sanremo. «È una corsa che sulla carta non mi si addice, ma io non mi do mai per vinto e quando mi metto il numero sulla schiena ci provo, sempre. L’obiettivo era chiaro, attaccare sul Poggio, portare via un gruppetto e Peter, se era in buona condizione, doveva cercare di rientrare su di noi per poi disputare la volata. È andato quasi tutto come previsto. Io ho attacco sul Poggio, Gerrans mi ha seguito subito, Cancellara ci ha raggiunto poco dopo e lungo la discesa e sul piano Fabian è stato semplicemente una moto. Io non ho dato un cambio, ma Peter, che doveva curare Fabian, ha perso l’attimo e in pratica con quello anche una grande occasione. Nella volata a tre c’era poco da fare: ho ottenuto un terzo posto che alla Sanremo non è poca cosa». Dopo la Sanremo, uno stacco. «Sono andato con il gruppo del Giro sul Teide. Io in verità non sapevo ancora se avrei corso il Giro o meno, ma ero lì per mettere a punto le classiche delle Ardenne. Ho lavorato bene con Paolo Slongo e il gruppo di Ivan (Basso, ndr) e poi sono rientrato alle corse per l’Amstel. In Olanda non sono andato come avrei voluto, ho pagato il grande lavoro svolto in altura, ma già dalla Freccia Vallone (8°) mi sono sentito meglio e poi alla Liegi ho corso, credo, una grande gara, ma non sempre è sufficiente per vincere». Quel giorno è stato forse il più bello e il più brutto della stagione. «Credo di sì. Ho fatto un grande numero. Da quando sono professionista forse non sono mai andato così forte, ma quello che poteva essere uno dei giorni più felici è stato il più triste perché il capolavoro è svanito proprio sul più bello». Pensi di aver sbagliato qualcosa? «Quando non si vince, c’è sempre qualcosa di sbagliato. Ma è altrettanto vero che si vince anche quando si sbaglia molto. Basta avere un pizzico di fortuna, oppure una giornata di grazia che cancella in un sol colpo tutti gli errori tattici commessi. Quel giorno a Liegi penso di aver forse sbagliato solo a non attendere nel finale Iglinskiy ma, sapendo di andare forte, mi dicevo “tra un po’ salta. Non può tenere ancora”. Invece chi è saltato sono stato io. Con il senno di poi, dico che se l’avessi aspettato e avessi rifiatato, forse il finale potevo giocarmelo diversamente. Di una cosa però sono sicuro: scattare sulla Roche aux Fauçons era la scelta ideale. Sapevo che era il punto cruciale della corsa, lo è stato anche in passato persino per il mio futuro team manager Alexander Vinokourov. Sono solo stato molto sfortunato». Quanto ti ha bruciato quella sconfitta. «Molto, ma sono anche uno che non sta lì a perdersi nelle sconfitte, anche le più brucianti. Da quel momento in poi ho pensato solo a prepararmi bene per il Tour». Hai mai parlato con Iglinskiy dopo quella sconfitta? «No, lui è un ragazzo molto timido e riservato. Spero solo che il prossimo anno, insieme, ci si possa dare una mano per vincere ancora qualcosa di importante. Lui la Liegi l’ha già vinta, quindi spero che mi dia una mano a coronare questo sogno: per me la Doyenne è il massimo». Dopo la Liegi, un altro stacco, in vista del Tour de France. «Prima dieci giorni di riposo attivo a casa, a Lugano. Poi ho cominciato a lavorare in proiezione Tour. Sono partito dieci giorni prima per il California, dieci giorni che ho trascorso in montagna laggiù. Uno stacco vero e proprio senza bici non l’ho mai fatto. Ho disputato il Giro di California e sono tornato un po’ preoccupato perché non andavo benissimo, ero un tantino imballato e bollito. Ho fatto altri dieci giorni a casa a Lugano, cercando di recuperare e smaltire il lavoro svolto in altura e poi sono partito per il Delfinato. I primi giorni mi sentivo bene, ma alla crono ho pagato e ho finito andando sempre peggio. Stavo proprio male e la preoccupazione aumentava perché al Tour mancava solo un mese. Ma nonostante tutto, sapevo che sarei riuscito a trovare la condizione giusta. E difatti, prima di questo grande appuntamento, sono andato a San Pellegrino con tutta la squadra del Tour e ho messo a punto la condizione, i primi test hanno subito dato indicazioni confortanti e da lì in poi abbiamo cominciato a fare lavori specifici che mi hanno permesso di acquisire sempre più fiducia e meno incertezze. Giusto una settimana di recupero e poi il Tour». Corso dall’inizio alla fine sempre da protagonista. «In un Tour che aveva oltre cento chilometri di cronometro, potevo fare ben poco se non quello che ho fatto. Ho cercato di lavorare tantissimo a crono e dare tutto in salita. Penso di aver davvero fatto grandi cose. Penso di non essere mai andato così forte su un percorso che non mi favoriva di certo. Il dominio Sky era troppo evidente. Però, nonostante io sapessi che c’era poco da fare e il terzo posto forse era il risultato massimo cui potessi ambire, ho provato fino all’ultimo ad inventarmi qualcosa». Wiggins ti ha fatto i complimenti… «In alcune occasioni l’ho fatto soffrire, ma davvero in difficoltà non l’ho mai visto». E sei convinto che senza Bradley, Froome avrebbe vinto quel Tour? «No. Un conto è correre sapendo che le castagne dal fuoco te le toglie qualcun altro, diverso è correre sapendo che non ti puoi permettere cedimenti. Froome ha avuto più cedimenti di Wiggins, credetemi». Dopo un grande Tour, Londra. «Avevo un ordine ben preciso, quello di portare fuori un gruppetto, perché in caso di volata Cavendish o Greipel avrebbero certamente vinto. Purtroppo nella prima parte di gara è caduto Modolo e non è riuscito ad agganciarsi a Cavendish e la nostra Olimpiade è andata un po’ così». Non è andata benissimo nemmeno al mondiale di Valkenburg. «Il percorso era abbastanza duro. E, a differenza dei giorni precedenti, sul rettilineo d’arrivo, il vento non ce l’avevamo in faccia ma alle spalle, quindi lì per lì favoriva le azioni in salita, ma nel lungo rettilineo in discesa il gruppo tornava sotto facile. Insomma, si poteva sì fare un’azione in salita, ma poi con il vento in faccia si andava poco lontano». Ma uno come te non doveva entrare nella fuga dei 24 con Contador e Voeckler? «Con il senno di poi ci può stare, ma il mio compito era quello di entrare in azione nel finale cercando di portare fuori un gruppetto e agevolare qualche alleanza. Purtroppo non siamo riusciti ad ottenere né l’uno né l’altra. Nel finale ho provato a mettere tutti alla frustra per favorire una volata di Gatto, che ha forse perso l’attimo. Ma sia chiaro, contro un Gilbert di quella portata c’era poco da fare. Philippe è andato via con un rapporto incredibile, con il 53x17, mentre io avevo il 39x13. Insomma, ci ha ammazzato. È stato il più forte. Punto». Tu nell’azione finale, quindi, cerchi di portare via un gruppetto e di agevolare la volata di Gatto. «Proprio così. Io sapevo di avere Gatto dietro di me, dovevo cercare di portare via un gruppetto e lui doveva esserci sempre. O si anticipa o avrebbe dovuto fare lui la volata. L’obiettivo era quello di portare a casa almeno una medaglia, ma è anche vero che un mondiale è sempre un mondiale e poi la caduta e la sua esitazione ci hanno messo in ginocchio». Il 13 ottobre, il traguardo più bello: hai sposato la tua Rachele a Fiuggi. «È stato un gran bel traguardo, dopo una stagione molto dura e faticosa. È stato il coronamento di un sogno». Quando hai conosciuto Rachele? «Due anni fa, a Fiuggi. Ero di passaggio da quelle parti perché stavo scendendo giù per andare a trovare i miei genitori in Sicilia e ho fatto una sosta a casa di Valerio (Agnoli, ndr). Sua moglie è molto amica di Rachele e così decidono di farmi conoscere una ragazza che, a loro dire, era perfetta per il sottoscritto. Rachele è di Acuto, un piccolo paesello in provincia di Frosinone che dista da Fiuggi pochi chilometri, così la incontro. È stato amore a prima vista». Un vero colpo di fulmine… «Proprio così. Io non sapevo niente di lei e lei niente di me. Ci conosciamo e ci piacciamo immediatamente». Ora siete andati a vivere a Viganello, in Svizzera. «È vicino a Lugano e ci troviamo molto bene. Lei si è iscritta ad Economia e Commercio. Ha lavorato fino a pochi mesi fa nell’ufficio contabilità della Bricofer, uno sponsor del Giro d’Italia, che ha dovuto chiudere la filiale di Frosinone». Alla famiglia di Rachele il ciclismo piace? «Mamma Cinzia, papà Maurizio ed Emy, la sorella, ora si interessano un po’ di più di quello che faccio». Quanti giorni di gara hai fatto? «Quasi 90». Il primo raduno Astana il 13 novembre a Montecatini. Finalmente Beppe Martinelli è riuscito ad averti: sei sempre stato un suo pallino. «È vero, da diversi anni mi faceva la corte». Sai che Martinelli ha vinto il Giro con Pantani, Garzelli, Simoni e Cunego e Contador. E il Tour con Pantani e Contador: insomma, sa come si fa… «Non mi piace fare né grandi pronostici né grandi dichiarazioni. Di una cosa sono certo: sono andato in un grande team, con grandi corridori e tecnici molto preparati. Io posso solo promettere il massimo impegno». Non ami fare i pronostici, ma cosa dici a chi sostiene che non potrai mai vincere un Tour… «Quello di quest’anno no. Ma se disegnassero un Tour con meno cronometro e con salite lunghe e logoranti, credo che potrei lottare per vincerlo. Insomma, qualcosa l’ho dimostrato. Ho fatto un terzo e un secondo al Giro. Ho vinto una Vuelta e ho fatto terzo al Tour. Però io sono uno che ama lasciar parlare tutti. Non mi offendo, ma pedalo e lascio parlare i risultati. Poi si tireranno le somme e si vedrà chi aveva ragione». Cosa ami fare quando non corri? «Sono un tipo tranquillo, proprio come Rachele. Ci assomigliamo molto. Entrambi riservati, di poche parole, due persone che amano stare a casa e godersi il tran tran della quotidianità, anche se io sono un po’ più zingaro di lei e non disdegno il viaggio. In ogni caso, amo anche stare a casa e fare i lavoretti. Sono da sempre appassionato di modellismo: macchinine e aeroplani. Ma sono anche uno che monta e smonta la propria bicicletta, se la sistema in prima persona e lo stesso faccio per la casa. Se posso, monto tutto io. Un giorno Rachele è andata a comprare dei supporti per le tende della casa e quando sono tornato lei mi ha detto: “sarai felice, c’è da montare tutta quella roba lì”. Ed io ero davvero felice. Mi rilassa da morire». È per questo che all’Astana ti porti il massaggiatore Michele Pallini e non il meccanico? «No, anzi. Alla Liquigas ti posso dire che c’è l’imbarazzo della scelta, i meccanici sono tutti bravissimi e ve lo dice uno che si sporca le mani e sa cosa vuol dire. No, non ho portato un meccanico per una semplice ragione: non ho potuto. Mi sarebbe piaciuto ma non ho potuto. E poi anche qui all’Astana c’è personale molto preparato, come Gabriele Tosello, che molto probabilmente mi seguirà più di altri». E a Rachele cosa piace fare? «Lei legge molto e poi ama fare lunghe passeggiate a piedi». Che rapporto hai con i soldi? «Buono. Penso di essere generoso il giusto. Non mi piace sperperare. Preferisco spendere soldi per la casa anziché per una bella macchina. Sono arrivato vicinissimo a comprarmi una Mercedes SLS, poi ho desistito. Oggi ho un bell’appartamento in Svizzera, un giorno mi farò una bella villa, ma ora come ora sono uno zingaro, sempre in giro e allora aspetto. La prima casa l’ho comprata nel 2008, a Mastromarco, un posto dove ho lasciato il cuore. È proprio davanti alla casetta della mia vecchia squadra da ragazzino, ora ci vive mio fratello Antonio». Giochi con la playstation? «Qualche volta, quando sono via per le corse, ma poco. Con Rachele preferisco vedere i film. Mai i telegiornali: troppe brutte notizie». Sa cucinare, Rachele? «Molto bene, credimi. Fa di tutto. Il mio piatto preferito? La pizza e la pasta in forma siciliana, con melanzane, formaggio filante, pomodoro e via elencando. È un vero e proprio pasticcio, che noi chiamiamo ’ncaciata alla messinese». Cosa chiedi al 2013? «Di rivincere l’Oscar tuttoBICI, se ciò accadesse vorrebbe dire che un’altra stagione da protagonista è andata un archivio. Ecco, vorrei essere protagonista, vincere qualcosa di importante. Due sono i grandi sogni: Liegi e Giro. Ma voi lo sapete bene, io non mi pongo mai limiti. Quando corro, lo faccio per vincere. Quindi, spero di fare solo bene. Spero anche di fare del bene al ciclismo tutto e a quello italiano in particolare. In questo momento ne ha bisogno. Tutti ne abbiamo bisogno». Anche noi.
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